Se dovessimo definire che cos’è un popolo, ci troveremmo in difficoltà nel non tenere conto degli incontri, degli scambi, delle osmosi che lungo il suo percorso di formazione hanno influenzato, direzionato e condizionato il suo sviluppo. Per parafrasare Chatwin, la risposta alla domanda sul che ci facciamo qui pare sempre essere “per andare altrove”. ll Mediterraneo sembra essere il bacino naturale di questo processo, fin dai tempi antichi in cui Erodoto viaggiando lungo le coste dell’Egitto notava con grande arguzia che l’Osiride Tebano assomigliava molto al Dioniso greco, al punto da meritarsi l’appellativo del “loro Dioniso”.
A sua volta l’Italia, monolitico sperone, il metaforico stivale che si “sporca” nel tragitto dell’umanità attraverso la storia, rappresenta pienamente questo concetto di contaminazione. Nel corso della sua storia le migrazioni verso e dall’Italia sono state il cuore pulsante dell’identità caleidoscopica di questo paese; basterebbe pensare che proprio Enea, un esule in fuga, divenne il fondatore dell’Impero romano nella mente di Virgilio.
Insomma, senza spingerci troppo in là nell’Odissea della ricerca storico-letteraria e delle sue suggestioni, la varietà e la bellezza del nostro paese sono il prodotto di contaminazioni, di incontri tra le diverse culture che hanno trovato una casa in quella che oggi chiamiamo Italia. Da sempre, migliaia di comunità linguistiche, etniche, culturali brulicano il terreno di questo paese, in un calderone (per ovviare all’inglesismo Melting Pot) di popoli che si uniscono in unico solo; quello italiano. Le radici stesse delle lingue dialettali che si possono trovare da Nord a Sud e la necessità di inventare una lingua franca, l’italiano, per potersi comprendere, sono l’ennesima prova di questa diversità e dei suoi benefici. Prova che ultimamente abbiamo avuto modo di sperimentare, in modo anche commovente, quando con un “retorico” appello alla nazione il premier albanese Edi Rama salutava la partenza di 30 medici albanesi accorsi per assistere il paese “amico”, l’Italia, nel pieno dell’emergenza Covid-19. Alla base dell’amicizia citata dal premier albanese ci sono però radici ancor più profonde di quelle recenti del 1991, quando nel nostro paese sbarcarono migliaia di albanesi, e che risalgono il fiume della storia a tempi ben più antichi di quelli del crollo del comunismo, fino alle cataratte situate a cavallo tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’epoca moderna.
L’ amicizia nasce nel XV secolo, quando i Turchi-Ottomani iniziarono una conquista progressiva dell’Albania e dei resti occidentali dell’Impero Bizantino. La guerra di conquista turca, inizialmente fu contrastata malamente dai popoli della penisola Balcanica, e si spinse senza problemi nel cuore dell’Epiro. L’espansione ottomana però fornì anche l’occasione ai vari signori feudali che dominavano le aree centrali dell’Albania di deporre le loro controversie e dispute territoriali ed unirsi nella leggendaria Lega di Lezha nel 1444, grazie principalmente allo sforzo diplomatico dell’allora principe di Kruja, Giorgio Kastrioti Skanderbeg. La Lega di Lezha, che segna anche l’inizio simbolico dello stato albanese, in quanto per la prima volta comandata da un principe di etnia albanese, maturò una serie di vittorie militari contro l’avanzata Ottomana – anche grazie al supporto della marina veneziana – invertendo le sorti di quella che sembrava una guerra di conquista destinata ad avvenire senza resistenza.
Tra le figure più rappresentative del XV secolo, Giorgio Kastrioti Skanderbeg, principe d’Albania e re d’Epiro, fu il condottiero valoroso che ostacolò l’avanzata dei turchi-ottomani verso l’Europa e gli valse l’appellativo di “Atleta di Cristo e difensore della fede” conferitogli da Papa Callisto III. La sua morte, avvenuta nel 1468, fu il preludio della sconfitta del fronte militare albanese e della successiva fuga delle popolazioni cristiane intimorite dalla dominazione ottomana, attraverso il canale d’Otranto, stabilendosi definitivamente sulle coste dell’Italia meridionale. Gli esuli divennero gli Arbëreshë.
Grazie alle sue amicizie e a favori militari fatti al re Alfonso D’Aragona del regno di Napoli, Skanderbeg aveva ottenuto delle terre nella odierna provincia di Catanzaro, dove molti Arbëreshë si rifugiarono per sfuggire all’avanzata ottomana, fondando così quella che oggi si chiama Comunità Arbëreshë (si pronuncia Arbresh). Detti anche arbëreshët e Italisë, sono gli albanesi d’Italia. La lingua parlata dagli Arbëreshë è frutto della creativa integrazione di elementi eterogenei: deriva da una varietà antica del tosco (toskë), dialetto meridionale dell’albanese, con qualche inflessione verso il ghego (gegë), il dialetto parlato invece nel Nord dell’Albania, su un sostrato di greco antico, abilmente “scecherato” con tutte le contaminazioni dei dialetti del meridione.
Insomma una vera e propria isola culturale dentro il panorama italiano che, dopo ben sette secoli, mantiene ancora vive lingua, religione e tradizioni. Parliamo di una popolazione che oggi si aggira attorno a 260 000 persone distribuite in circa 51 comuni del Meridione. La maggior concentrazione di comunità è in Calabria, con ben 35 comuni distribuiti per la maggior parte nelle zone montuose della provincia di Cosenza. La comunità più numerosa, invece, è a Piana degli Albanesi in Sicilia. Uno studio fatto qualche anno fa da Stefania Sarno e pubblicato sul European Journal of Human Genetics, ha dimostrato che il DNA di 150 Arbëreshë Calabresi della provincia di Catanzaro è molto simile a quello degli odierni Albanesi, dimostrandone l’origine balcanica. Nelle comunità Arbëreshë calabresi usi e costumi tradizionali sono molto radicati e vengono mantenuti vivi grazie a festival e manifestazioni, che si propongono di promuovere e far conoscere la propria cultura, un esempio è il Festival della canzone Arbëreshë di San Demetrio Corone, oppure il Festival della cultura Arbëresh di Spezzano Albanese.
Proprio a Spezzano Cosentino vive Paolo Antonucci, membro della comunità Arbëreshë:
Ciao Paolo. Parto subito a bomba. Oggi sentite il peso dell’integrazione?
“Ad oggi la comunità italoalbanofona è perfettamente integrata nella cultura delle varie regioni dove si trovano i vari paesi Arbëreshë. La lingua ha assunto tutti i neologismi italiani dal 1400 ad oggi, e non esiste da tempo una barriera ai matrimoni tra Arbëreshë e locali.”
Qual’è il rapporto con gli Albanesi di oggi?
“Il rapporto con l’Albania si è molto diluito a livello popolare ma è mantenuto da una comunità culturale che intrattiene fitti rapporti di scambio con Tirana e dintorni. Esistono linguisti calabresi che hanno compilato un vocabolario italo-arbëresh, varie pro-loco ed associazioni organizzano eventi a tema, anche avvalendosi dei finanziamenti che fino ad un paio di anni fa erano destinati per legge alla tutela delle minoranze linguistiche. Quello che sanno in pochi e che la lingua albanese stessa non aveva un alfabeto ed una sua forma scritta, fino al 1839 quando Girolamo De Rada Arbëresh di Macchia Albanese, durante la redazione dei “Canti di Milosao” non ne creò uno con la commistione di greco e latino.”
Invece con la religione? Voi siete ortodossi, vero?
“Sì! Dal punto di vista religioso la chiesa di rito ortodosso d’Italia, che fa capo alla Eparchia di Lungro, è incardinata nella Chiesa cattolica e non risponde quindi ad autorità religiose oltremare; questa chiesa concorre a tutelare il patrimonio artistico e culturale, in massima parte all’interno delle chiese e dei musei diocesani. La Chiesa non ha comunque sulla società una influenza maggiore di quella cattolica, vista la crescente laicizzazione della società italiana.”
Cosa vuol dire secondo te essere Arbëreshë oggi?
“Oggi essere Arbëreshë non rappresenta nè un fardello nè uno stimolo culturale per la stragrande maggioranza degli italo-albanofoni. La lingua viene parlata sempre meno, gli Arbëreshë condividono pregi e difetti dei loro connazionali, anche perché con la facilità di movimento data dalla motorizzazione i confini culturali tra le comunità sono stati da tempo abbattuti.”
Esiste un piatto Arbëreshë entrato a pieno titolo nei piatti tipici della cultura calabrese, che magari nessuno conosce?
“Riguardo alla cultura dell’alimentazione, un piatto tipico Arbëreshë, sono gli Shëtridhlat, più o meno quelli che in italiano chiamiamo Bigoli. Spaghettoni tirati a mano e filati attraverso il pugno chiuso dell’altra mano, una sorta di Noodles ma più complessi da fare. Mia moglie li cucina con ragù di pecora e capra. Nel corso dei secoli sono entrati a pieno titolo nella cucina Calabrese.”
Sembra chiaro che nonostante la provenienza balcanica e una tradizione culturale che viene mantenuta e perpetrata nel tempo, la presenza di queste comunità nel territorio italiano è un dato naturale, il frutto di quella natura estemporanea e variegata dell’origine dei popoli e del loro evolversi. Sfuggiti alle persecuzioni e alla rovina della loro città, proprio come Enea, hanno mantenuto la lingua e conservato i costumi, e oggi le comunità Arbëreshë si considerano pienamente italiane. A dimostrazione che l’amicizia che lega i due popoli e la loro storia, nonostante alcuni momenti bui – come in tutte le amicizie d’altronde – dura da oltre cinquecento anni, l’integrazione di questi albanesi sfuggiti alle persecuzioni si eleva come monito e, forse anche come ricordo, della ricchezza e del privilegio che la diversità e la contaminazione ha sempre portato con sé nel Mediterraneo.
In conclusione, forse il fatto di appartenere a una cultura con tratti identitari forti, che riesce a conservare vive le proprie tradizioni attraverso i secoli e lasciarsi contaminare, senza perdere la propria identità e a convivere tranquillamente come hanno fatto gli Arbëreshë, ci insegnano che una nuova – ma in realtà molto antica- integrazione è possibile. E che andare altrove, forse, e rinascere veramente, proprio come fece Roma, è solo possibile se dentro di noi ci portiamo il ricordo – Enea li chiamava gli dei del focolare – di quella che una volta era casa nostra.