Articolo a cura di Elena Giustesso
Le relazioni dell’UE con i Paesi dei Balcani giocano un ruolo molto importante sull’immagine e sullo sviluppo della politica estera dell’Unione. Se durante gli anni Novanta, i Balcani occidentali rappresentavano il luogo di maggior fallimento per l’azione esterna europea, dai primi anni 2000 e in particolare dall’allargamento del 2004, il territorio dei Balcani è diventato un importante campo di prova della leadership europea e della sua azione esterna.
Da quando è nata, la politica di allargamento dell’UE mira a riunire i paesi europei in un progetto politico ed economico comune e rappresenta uno degli strumenti più efficaci nella promozione delle riforme politiche, economiche e sociali, nonché nel consolidamento della pace, della stabilità e della democrazia in tutto il continente.
Le prospettive di allargamento dell’Unione sono ora rivolte ai Balcani occidentali. Tra le potenziali new entry ci sono gli stati che godono dello status di paesi candidati, con cui sono stati anche avviati i negoziati di adesione: Montenegro, Serbia e – da poco più di un mese – anche Albania e Repubblica di Macedonia del Nord.
Bosnia Erzegovina e Kosovo sono ancora qualificati come potenziali candidati.
L’avvio dei negoziati di adesione all’UE con Albania e Repubblica di Macedonia del Nord è recente, datato lo scorso 26 marzo. Entrambi i Paesi attendevano questa luce verde dall’aprile del 2018, data in cui la Commissione europea aveva espresso un parere favorevole all’apertura dei negoziati. I 27 Stati membri sono però rimasti divisi sul da farsi per quasi due anni, impedendo così che i negoziati cominciassero. In particolare la Francia di Macron ha a lungo richiesto di concentrarsi su riforme istituzionali all’interno dell’Unione e sul rafforzamento dell’eurozona, prima di pensare di accogliere nuovi paesi al proprio interno. Così ha parlato il Presidente della Repubblica francesce nel 2018, ad un summit coi leader regionali:
“Quello a cui abbiamo assistito negli ultimi 15 anni è un percorso di indebolimento dell’Europa, ogni volta che abbiamo pensato di allargarla. E io non penso che sia un favore che facciamo agli Stati candidati o a noi stessi, quello di avere un meccanismo che in un certo senso non ha più regole, o che continui a tendere verso un allargamento.
[…] Io non sono favorevole a un allargamento, senza che prima vi siano tutte i prerequisiti necessari e prima che sia fatta una riforma reale che permetta un approfondimento e miglioramento dell’Unione Europea. […] Sono favorevole ad un dialogo di rafforzamento strategico e di prospettiva coi paesi dei Balcani occidentali, in modo che vengano realizzate le riforme che abbiamo intrapreso e che vengano incoraggiate – ma senza essere negligenti o ipocriti”.
L’apertura dei negoziati con Tirana e Skopje, come anche riconosciuto dalla Presidentessa della Commissione Ursula Von der Leyen, attesta la credibilità della volontà politica di Bruxelles di accogliere i Paesi dei Balcani al proprio interno. Non a caso è stata definita da alcuni commentatori una decisione storica.
Tuttavia, l’apertura dei negoziati non deve ingannare: in primo luogo si tratta di un processo molto lungo e meticoloso e che non necessariamente garantirà il loro ingresso nell’UE. Si pensi al caso turco: Ankara ha avviato le trattative nel 2005, ma oggi i negoziati sono formalmente sospesi e una futura adesione del Paese di Erdoğan sembra molto lontana dal realizzarsi.
Inoltre, nei casi specifici di Albania e Repubblica di Macedonia del Nord, su richiesta di Francia e Olanda – i due Paesi che più di altri hanno ostacolato l’avvio dei negoziati – non è stata fissata una data ufficiale per l’inizio delle trattative. L’apertura dei negoziati, dunque, rimane più formale che sostanziale.
Infine, i temi discussi durante i negoziati sono suddivisi in 35 capitoli negoziali e ognuno di esso può essere aperto soltanto se approvato all’unanimità da tutti i 27 stati membri. Come se non bastasse, il passaggio al capitolo successivo avviene soltanto in seguito alla chiusura del precedente. Ma una tale procedura, seppur considerata necessaria, può rendere le trattative molto lunghe.
L’esempio del Montenegro è chiaro al riguardo: Podgorica ha presentato domanda di adesione nel 2008, i negoziati sono cominciati nel 2012, ma oggi, ben 8 anni dopo, sono stati chiusi soltanto tre capitoli negoziali. Un’analisi condotta dal think thank berlinese, European Stability Initiative (ESI), sostiene che procedendo a questo ritmo, occorreranno altri trent’anni affinché il Montenegro giunga al termine dei negoziati. Il problema, come continua l’ESI, è che nel frattempo la legislazione europea e il contesto storico-politico potrebbero essere ben diversi.
Una riflessione a questo proposito può essere utile.
Da una parte i 6 paesi dei Balcani occidentali sono formalmente democrazie rappresentative, ma ancora deboli e incapaci di portare a compimento molte delle riforme politico-economiche fondamentali richieste dall’Unione. Sono infatti frammenti dell’ex Jugoslavia, giovani nella capacità di autogovernarsi; se de jure i diritti fondamentali sono in gran parte sanciti nelle legislazioni dei suddetti paesi, de facto non vengono sempre attuati: particolare attenzione meritano la libertà di espressione e l’indipendenza dei media.
Inoltre, all’interno della regione permangono molte questioni bilaterali irrisolte, effetto delle guerre passate. Una delle controversie principali che questi Paesi devono affrontare per migliorare e stabilizzare le loro relazioni bilaterali e, di conseguenza, per ottenere l’accesso all’Unione europea, riguarda il tema dei confini tra i rispettivi Paesi.
D’altra parte, come ad esempio dimostra lo stallo nel dialogo sulla “normalizzazione” tra Kosovo e Serbia, lasciare che la responsabilità a risolvere storiche dispute sia interamente in mano ai due Paesi interessati non avrà il risvolto desiderato. È quindi necessario uno sforzo diplomatico più proattivo da parte dell’Unione utilizzando le proprie competenze e capacità per promuovere un processo basato sullo stato di diritto e che vada oltre all’eredità del passato. Secondo alcuni, la nomina di un Rappresentante Speciale UE per la risoluzione di tali controversie dovrebbe essere presa in considerazione.
È dunque importante ricordare che le dinamiche di adesione dei sei Paesi dei Balcani non possono dipendere soltanto dalla loro capacità di avvicinarsi agli standard europei. La Commissione e soprattutto il Consiglio, composto dagli Stati membri, rappresentano l’altro lato della medaglia; l’impegno e gli interessi dei Ventisette nella regione non sono gli stessi: alcuni giocano un ruolo più attivo di altri e non sempre viene raggiunto un consenso tra tutti. Quest’ultima è la situazione che si sta verificando oggi: sebbene la prospettiva europea della regione dei Balcani sia chiara, non sono chiare le scadenze temporali; la Slovenia è diventata membro nel 2004 e la Croazia nel 2013. I rimanenti sei attendono e, come sottolineano alcuni studiosi, sulla base di questa esperienza, non è impossibile che i Balcani occidentali ci mettano ancora molto tempo prima di diventare membri.
Infatti, in un momento storico in cui l’Unione è attraversata da crisi multiple, da ultima quella del Coronavirus, la previsione di un concreto allargamento europeo verso i Balcani occidentali sembra molto lontana dalla realtà; ad oggi manca un orizzonte temporale chiaro per l’ingresso anche di Serbia e Montenegro con cui i negoziati sono stati aperti da almeno 5 anni. Allo stesso modo, anche il via libera ai negoziati ufficiali con Albania e Repubblica di Macedonia del Nord, da una parte ha rappresentato un importante momento politico e diplomatico per confermare l’interesse di Bruxelles nella regione, ma dall’altra è rimasta per ora una mera formalità.
Sicuramente l’UE si trova oggi in un periodo di “stanchezza da allargamento”, dovuta sia ai precedenti allargamenti, sia alla crisi economica del 2008 che coinvolse anche importanti aspetti politici e identitari.
Da un lato è forte il timore che l’adesione di Stati deboli, con controversie interne non sempre risolte, possa danneggiare l’UE. Per questo motivo, alcuni dei leader dei Ventisette governi considerano preoccupante la prospettiva di allargamento nei Balcani occidentali e, pur promettendo loro l’ingresso nell’UE, adottano la strategia difensiva rimanendo incerti e poco chiari circa una scadenza temporale sulla loro adesione.
D’altro lato, però, continuare a rinviare l’adesione di questi Paesi a un futuro indefinito, potrebbe minare i recenti progressi in materia di pace e stabilità nella regione.
È un dato di fatto che l’adesione dei Paesi dei Balcani occidentali possa comportare maggiori sfide per la già difficile coesione interna e solidarietà dell’Unione. Con il quinto allargamento del 2004 e l’ingresso di Cipro, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Slovacchia e Slovenia si è infatti verificata una situazione per cui alcuni nuovi Stati membri, una volta raggiunto l’obiettivo di appartenere al “club europeo”, hanno smesso di portare avanti il progetto di integrazione europea. Così Bruxelles è divenuta più consapevole del fatto che ciò che non viene raggiunto dal Paese candidato prima dell’adesione, è molto più difficile da realizzare e ottenere in seguito.
Come alcuni studiosi sostengono, l’allargamento dell’Unione a est è un tema controverso, con visioni discordanti. Da una parte si pensa che rappresenti “semplicemente un atto dovuto, la ricostruzione della casa europea a lungo separata dalla ferita del muro di Berlino”; d’altra parte, l’inclusione di alcuni Paesi è stata considerata troppo frettolosa e alcuni di essi, come Polonia e Ungheria, hanno spesso mostrato di non condividere i valori e gli obiettivi politici che sono alla base dell’Unione.
Il tema dei diritti fondamentali nell’ambito della politica di allargamento è molto complicato: l’autoritarismo, la mancanza di solide libertà fondamentali e valori democratici e la corruzione sono ancora pratica comune e accettata in numerosi Paesi dei Balcani occidentali.
I media sono spesso controllati dalle élite al potere e le organizzazioni della società civile soggette a discriminazioni e intimidazioni. Infine, la mancanza di un sistema giudiziario indipendente e imparziale rende molto debole o addirittura inesistente l’equilibrio tra i vari poteri all’interno dello Stato.
Che ne sarebbe della credibilità europea, se anche Serbia, Montenegro, Albania, Repubblica di Macedonia del Nord, Bosnia o Kosovo, una volta divenuti Stati membri UE, seguissero l’esempio del governo di Budapest?
Che ne sarebbe della credibilità europea se a una prossima crisi dei migranti come quella del 2015, i Paesi dei Balcani agissero come il gruppo Visegrad 5 anni fa rifiutando di accogliere la quota di individui stabilita da Bruxelles?