L’autore di questa citazione, apparentemente, non c’entra nulla con la nostra storia: è morto gridando «Vive la France!». Di fatto, ha invece fornito un contributo straordinario a una storia che, svincolandosi dalle strette dinamiche evenemenziale, si fece sociale e culturale e dunque non più nazionale ma universale.
«Nemico diabolico della verità storica: la mania del giudizio». Il suo lavoro più noto, Apologia della storia o Mestiere di storico, inizia con una celebre frase: «”Papà, spiegami allora a cosa serve la storia”. Così un giovinetto, che mi è molto caro, interrogava, qualche anno fa, uno storico. Del libro che si leggerà, vorrei poter dire che è la mia risposta». La risposta che lo studioso dà al figlioletto è: «Il passato in funzione del presente e il presente in funzione del passato». Una riflessione in grado di elevare il mestiere dello storico rispetto al semplice erudito dedito al passato. Il recupero della “memoria collettiva” diventa un punto di riflessione importante per ogni società, che da una migliore conoscenza del passato potrà meglio risolvere i problemi del presente. Per questo Apologia della storia è uno dei più importanti testi di metodologia storica, pur essendo incompleto.
Il suo autore è morto gridando «Vive la France!» un istante prima che i nazisti lo metteresso con la faccia rivolta a muro, a Lione il 16 giugno 1944. Marc Bloch è militare pluridecorato e soprattutto partigiano, oltre che uno dei più importanti storici del Novecento.
Alla nostra Storia abbiamo dedicato l’intero speciale 25 aprile, che si conclude oggi, nel giorno della resa incondizionata di Caserta, il giorno della Vittoria sui nazifascisti in Italia.
Abbiamo provato a ripercorre un fiume carsico, quello della Memoria che a ondate mette un tema sulla bocca di tutti, per poi farlo tornare a soggiacere in meandri inesplorati. Da sempre il discorso pubblico della Resistenza procede a fasi alterne di esaltazione dialettica e di accantonamento. Lo abbiamo fatto cercando il più possibile di contestualizzarlo, di metterne in evidenza le problematicità e, fin dove possibili, le visioni contrastanti. La nostra visione, come italiani, è e deve essere chiara. Non ci può essere dubbio su quale parte propendere: lo dobbiamo alla Storia e anche alla Memoria.
Il discorso pubblico sul tema del Ventennio e della guerra nell’Italia Repubblicana è da sempre combattuto e “divisivo”. Fin dalle proprie origini nella rielaborazione del conflitto, già all’indomani dell’Otto settembre 1943. L’immediata esigenza di controbattere alla propaganda nemica, di mobilitare il paese nella lotta contro l’invasore e di rivendicare appieno il proprio ruolo nella lotta al nazifascismo, diede vita ad una “lettura tranchant e mitizzata” della Resistenza ad opera del CLN. Questo non scalfisce però il ruolo storico e morale che quel movimento ebbe per il nostro paese.
E’ necessario squarciare il velo di una memoria collettiva largamente auto-assolutoria. Dall’operazione di rimozione della narrazione egemonica, totalmente dimentica di aspetti problematici – come il consenso di cui godette il regime – emerge più chiaramente il peso specifico e il valore della Resistenza.
Occorre scavare dentro la “vulgata resistenziale” che sollecita una memoria pubblica pacificata, per arrivare al cuore della questione, al valore storico della Resistenza. Spesso la soggettività della memoria confligge con la realtà della storia. Nel caso della Resistenza italiana, è successo quasi il contrario. Da Roberto Battaglia a Guido Quazza, da Giorgio Vaccarino a Giorgio Bocca, da Ermanno Gorrieri a Claudio Pavone, gli studiosi più acuti e profondi della nostra vicenda resistenziale sono stati uomini che di tale vicenda – quando avevano vent’anni o giù di lì – erano stati testimoni o addirittura protagonisti.
Per diciotto mesi in Italia, tra il 1943 e il 1945, è accaduto un qualcosa di ben noto ai più alti esempi della nostra letteratura del Novecento – da Calvino a Fenoglio, da Questi a Meneghello – che per vent’anni dopo il 1945 non aveva detto altro che questo: che la Resistenza italiana era stata anzitutto una guerra civile.
Una guerra civile, per la storiografia era invece qualcosa di originale. Ecco che allora nel 1991 irrompe con ferocia a squarciare il velo il libro di Cladio Pavone, Una guerra civile. Con l’uso irreplicabile delle fonti documentali – di chi ha vissuto gran parte della sua vita presso l’Archivio Centrale dello Stato – mescolate con sapienza con le fonti di memoria. Poiché non è vietato allo storico di fare ricorso alla memorialistica, per ricostruire l’una o l’altra vicenda del passato.
L’importante, quando si lavora con le fonti di memoria, è tenerne a mente lo statuto. In modo da non confondere il prima e il dopo, l’oggettivo e il soggettivo, il materiale e l’immaginario. Ecco perché Una guerra civile è una pietra miliare della nostra storiografia, in grado di spiegarci definitivamente come tra in quei tragici diciotto mesi la guerra fu triplice: patriottica, contro l’invasore nazista; di classe, per socialisti e comunisti contro quei “padroni” che avevano consentito il passaggio del fascismo da movimento a dittatura ventennale; e anche una guerra civile.
Racconta Sergio Luzzatto come «nel sottotitolo di Una guerra civile, quello che apparentemente è un dettaglio – una preposizione articolata – dice molto del libro e del suo autore. “Saggio storico sulla moralità nella Resistenza”: nella Resistenza, non della Resistenza. A significare che, secondo l’ex partigiano Claudio Pavone, la Resistenza non era stata morale per definizione. Che durante i venti mesi dell’occupazione tedesca e della guerra civile, la moralità dell’azione partigiana era stata una conquista, piuttosto che una prerogativa. Era risultata da un percorso, piuttosto che da chissà quale garanzia a priori. Gli eroi della Resistenza non erano nati belli e fatti, come la mitologica Minerva dalla testa di Giove. Si erano costruiti nel tempo, attraverso esperienze ed errori. Come tutti i comuni mortali».
Possiamo dire che dallo spartiacque dell’opera di Pavone la storiografia italiana sulla resistenza abbia allargato il suo raggio di indagine, anzi si sia rivitalizzata!
Benché il clima politico dei primi anni novanta e del decennio successivo abbia messo in crisi il paradigma antifascista, l’approccio storiografico è riuscito a dare linfa allo studio del movimento resistenziale. Dal punto di vista interpretativo si è dato alla resistenza una nuova configurazione: accanto alla tradizionale guerra partigiana per bande si è inserita la guerra di liberazione combattuta dalle truppe regolari del Regno del Sud (1°Raggruppamento Motorizzato e Gruppi di combattimento poi); la resistenza dei militari italiani in mano tedesca (IMI Internati Militari Italiani); la resistenza dei militari all’estero; la resistenza civile della popolazione, attraverso forme violente e non. Questi nuovi filoni di studio sono utili strumenti per interpretare l’atteggiamento verso quella parte di società a lungo definita attendista o collaborazionista. In queste ricostruzioni, come in quelle dei combattenti delle montagne, la memoria è stata un utile strumento per riportare alla luce eventi di cui la società civile è stata vittima. In queste situazioni il lavoro dello storico ha ricomposto i frammenti di ricordi di stragi relazionandole con la diatriba tra azioni di sabotaggio e rappresaglia. Il quadro storiografico si allarga così includendo tutti i settori della società impegnati nella lotta, modificando la lente dell’analisi, solamente, politica, e attribuendo il giusto apporto alla resistenza a chi non ha combattuto dalla montagna, ma lo ha fatto come ha potuto, in relazione alla sua condizione contingente.
Possiamo dunque stare tranquilli e serenamente fare i conti con il passato, anche quello meno nobile della nostra Resistenza. Non sarà il tempo, non sarà la morte degli ultimi testimoni diretti e nemmeno una trattazione sui libri di testi che, come accaduto al Risorgimento, tende progressivamente ad allontanarla dalla contemporaneità. Non sarà il pensiero critico, lo sforzo di contestualizzare, il dibattito a doverci preoccupare. La presenza di elementi “divisivi”, di una trattazione non monolitici ma dialettico, non possono che rafforzare la narrazione. Fino a quando il discorso pubblico non sarà neutralizzato, anestetizzato e livellato, allora rimarrà acceso. Fino ad allora la Resistenza sarà viva: sarà Storia e Memoria.