L’arresto del superlatitante Matteo Messina Denaro e ancor più la vicenda di Alfredo Cospito – l’anarchico detenuto in regime di “carcere duro” che ha da poco posto fine a uno sciopero della fame durato per oltre sei mesi – hanno riportato l’attenzione dell’opinione pubblica sull’istituto del 41-bis. A oltre trent’anni dalla sua formulazione, è utile e insieme doveroso cercare di capire attraverso l’analisi dei dati la reale efficacia di uno strumento che, da un lato all’altro della barricata, non smette di far discutere.
Per questa ragione abbiamo deciso di produrre un’inchiesta divisa in sei appuntamenti. Grazie ad essa ripercorreremo insieme la storia del 41-bis. Ne affronteremo gli scopi espliciti e indagheremo quelli impliciti, così come le sue implicazioni in tema di diritti umani. E, infine, cercheremo di trarre le dovute conclusioni per stabilire se e quanto il “carcere duro” funzioni davvero nella lotta alle mafie.
Nel quarto appuntamento di questa nostra indagine andiamo ad analizzare quello che in molti hanno definito uno scopo latente del 41-bis, ovvero la sua natura di strumento repressivo-punitivo pensato per favorire la collaborazione con la giustizia.
IL 41-bis come strumento repressivo-punitivo per favorire la collaborazione
Come abbiamo visto nelle scorse settimane, sono in molti a ritenere che il 41-bis sia stato pensato anche con un intento repressivo-punitivo, al fine di piegare il recluso verso la collaborazione imponendogli una detenzione ai limiti della sopportazione.
Tra gli altri, chi la pensa così sono gli attivisti dell’associazione Antigone, realtà che da quasi quarant’anni si impegna per aiutare la nascita di un nuovo modello di legalità penale e processuale in Italia. Non ne fanno mistero nel loro ultimo rapporto sulle condizioni di detenzione, dove in merito allo scopo latente del 41-bis si trova scritto che “un regime detentivo che si definisce “duro”, non può non evocare l’idea di un sistema intransigente che mira a “far crollare” (anche sul piano psicofisico) chi vi viene sottoposto, puntando, sempre in forma latente, alla “redenzione”, cioè alla collaborazione con la giustizia”.
Mettendo da parte la questione della legittimità di un simile scopo, la domanda che pensiamo sia più funzionale porci ai fini della nostra indagine è: ipotizzando che, oltre al fine esplicito di prevenire nuovi reati, il “carcere duro” abbia anche uno scopo latente ovvero spingere mafiosi e terroristi a collaborare… tale istituto sta riuscendo nel suo intento?
Prendendo i dati degli ultimi quindici anni forniti dal DAP – il Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria – nelle sue relazioni, dal 2008 al 2022 sarebbero tra i 60 e i 75 i detenuti declassati dal regime di 41-bis all’Alta Sicurezza, o altro regime detentivo ordinario, perché hanno iniziato un percorso di collaborazione. Si tratta di meno del 10% degli attuali reclusi al “carcere duro” e di una percentuale ancora più bassa se si prendono in considerazione tutti coloro che vi sono passati dal 2008 a oggi.
Più che un sistema che favorisce la collaborazione, dall’analisi dei dati il 41-bis appare piuttosto come un regime dal quale, una volta entrati, non si ha più modo di uscire: altissimo è infatti il numero delle proroghe[2] le quali, sebbene presentino un’inflessione negli ultimi anni, risultano essere oltre cinque volte superiori alle nuove applicazioni (84 contro 16 nel 2022, ben 155 contro 15 nel 2021). In parole povere, sono molti di più quelli che rimangono confinati al “carcere duro” rispetto a coloro che vi entrano.
“La proroga è disposta quando risulta che la capacità di mantenere collegamenti con l’associazione criminale, terroristica o eversiva non è venuta meno, tenuto conto anche del profilo criminale e della posizione rivestita dal soggetto in seno all’associazione, della perdurante operatività del sodalizio criminale, della sopravvenienza di nuove incriminazioni non precedentemente valutate, degli esiti del trattamento penitenziario e del tenore di vita dei familiari del sottoposto. Il mero decorso del tempo non costituisce, di per se’, elemento sufficiente per escludere la capacità di mantenere i collegamenti con l’associazione o dimostrare il venir meno dell’operatività della stessa”.
Dal testo di legge appare evidente come il tempo non costituisca fattore in grado di escludere la pericolosità di un detenuto (ragione per cui vi sono mafiosi e terroristi in regime di 41-bis da decenni), mentre vi siano molteplici elementi che ne giustifichino la proroga della reclusione al “carcere duro” (alcuni non direttamente riconducibili al detenuto, come ad esempio il tenore di vita dei familiari o il perdurare dell’operatività della sua cosca anche a seguito dell’arresto).
A fronte di un quadro del genere, dove gli unici modi per affrancarsi dalle restrizioni imposte dal 41-bis sono la scarcerazione [1], la morte, l’accoglimento di un reclamo [2] e, come detto, la collaborazione, quest’ultima non sembra comunque essere considerata una via troppo attraente dai detenuti. Anche in questo caso, dunque, lo scopo più o meno latente, più o meno voluto del 41-bis, non sembra essere raggiunto.
Ciò che rimane per certo invece – e ci si augura non sia un fine celato del “carcere duro” ma solo una sua conseguenza imprevista – è l’inevitabile aggravamento delle sofferenze di chi vi si trova recluso.
Proprio di questo parleremo nel prossimo e penultimo episodio della nostra inchiesta. Appuntamento a settimana prossima!
[1] Scarcerazione che, di fatto, non sempre rappresenta una garanzia di fine del 41-bis. Esiste infatti una ristretta categoria di individui che, anche a condanna scontata, rimangono al 41-bis data la loro presunta pericolosità. Si tratta degli internati, detenuti che, ha spiegato l’avvocato Piera Farina su ristretti.org, “non sono in grado di dimostrare la cessata pericolosità in quanto non possono accedere alle licenze che servirebbero a valutarne l’evoluzione: ma essendo al 41bis non possono uscire dalla cella ed avere contatti con persone diverse dal compagno di socialità. Così il giudice di sorveglianza rinnova di volta in volta. Quella degli internati al 41bis è una situazione assurda che si trasforma in una pena detentiva senza un fine pena”.
[2] Il detenuto, o il suo legale, possono presentare reclamo dinnanzi a un’istanza di proroga per impedirne l’applicazione. Tuttavia, sono stati pochi i casi negli anni in cui tali reclami siano stati accolti. Inoltre, ha suscitato non poche polemiche l’accentramento delle decisioni finali in merito ai reclami in capo al Tribunale centrale di sorveglianza di Roma: una modifica inserita con gli adeguamenti al testo di legge del 2009 che ha comportato diversi ritardi sui singoli reclami.