L’arresto del superlatitante Matteo Messina Denaro e ancor più la vicenda di Alfredo Cospito – l’anarchico detenuto in regime di “carcere duro” che ha da poco posto fine a uno sciopero della fame durato per oltre sei mesi – hanno riportato l’attenzione dell’opinione pubblica sull’istituto del 41-bis. A oltre trent’anni dalla sua formulazione, è utile e insieme doveroso cercare di capire attraverso l’analisi dei dati la reale efficacia di uno strumento che, da un lato all’altro della barricata, non smette di far discutere.
Per questa ragione abbiamo deciso di produrre un’inchiesta divisa in sei appuntamenti. Grazie ad essa ripercorreremo insieme la storia del 41-bis. Ne affronteremo gli scopi espliciti e indagheremo quelli impliciti, così come le sue implicazioni in tema di diritti umani. E, infine, cercheremo di trarre le dovute conclusioni per stabilire se e quanto il “carcere duro” funzioni davvero nella lotta alle mafie.
Nel secondo appuntamento di questa nostra indagine andiamo ad analizzare il contenuto del testo di legge per conoscerne i fini espliciti e indagarne quelli più o meno impliciti.
Natura e scopi, espliciti e impliciti, del “carcere duro”
Cosa prevede esattamente il “carcere duro” delineato dal 41-bis? Per quei detenuti – con sentenza definitiva e non – ai quali venga riconosciuto tale regime di detenzione speciale sono applicate per quattro anni – con eventuali proroghe ogni due, laddove si ritenga persista il pericolo di interazione con l’associazione di appartenenza – le seguenti misure restrittive:
- Isolamento nei confronti degli altri detenuti. Il detenuto è situato in una cella singola e non ha accesso a spazi comuni del carcere;
- L’ora d’aria è limitata – rispetto ai detenuti comuni – a due ore al giorno e avviene in gruppi di socialità non superiori alle quattro persone. Tuttavia, secondo il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale capita spesso che, a causa di limiti logistici dovuti a inadempienze e mancanze delle nostre carceri, molti detenuti non riescano ad effettuare giornalmente l’ora d’aria che gli spetta di diritto, vivendo così per giorni in condizioni di totale isolamento.
- Il detenuto è costantemente sorvegliato da un reparto speciale del corpo di polizia penitenziaria il quale, a sua volta, non entra in contatto con gli altri poliziotti penitenziari;
- Limitazione dei colloqui con i familiari per quantità (uno al mese della durata di un’ora) e per qualità (il contatto fisico è impedito da un vetro divisorio a tutta altezza, eccezion fatta per i parenti stretti al di sotto dei 12 anni di età.). Solo per coloro che non effettuano colloqui può essere autorizzato, con provvedimento motivato del direttore dell’istituto, un colloquio telefonico mensile con i familiari e conviventi della durata massima di dieci minuti; che avvenga in presenza o per via telefonica, l’incontro è videoregistrato per tutta la sua durata.
- Nel caso di colloqui con l’avvocato difensore, gli incontri non hanno limitazioni in ordine di numero e durata (norma modificata nel 2013 dopo una sentenza della Corte Costituzionale: antecedentemente il limite era posto a un’ora ad incontro per massimo tre colloqui a settimana);
- Visto di controllo di tutta la posta in uscita e in entrata. Curioso sottolineare come l’unica corrispondenza che non venga posta a visto e censura – oltre a quella con il proprio avvocato – è quella che il detenuto eventualmente intrattiene con i parlamentari e le autorità giudiziarie;
- Limitazione delle somme, dei beni e degli oggetti che possono essere tenuti nelle celle (penne, libri, quaderni, bottiglie, ecc.) e anche negli oggetti che possono essere ricevuti dall’esterno;
- Esclusione dalle rappresentanze dei detenuti e degli internati.
Regole molto stringenti, che hanno appunto portato a utilizzare nel gergo comune il termine “carcere duro”. Ma qual è la ratio in grado di “giustificare” l’imposizione di un trattamento che in molti – Corte Europea dei Diritti dell’Uomo inclusa – hanno definito per certi aspetti inumano e paragonabile alla tortura?
Qui è bene effettuare una premessa: sebbene la norma indichi un’unica ragione alla base della sua applicazione, sono in molti ad effettuare un distinguo tra scopo esplicito – presente e ben delineato nel testo di legge – e scopo latente del 41-bis. Ed è proprio attorno a questo punto che scoppiano le principali polemiche.
Il fine esplicito, citando direttamente il nostro Codice penale, è quello di sospendere per i detenuti “in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva, l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza. La sospensione comporta le restrizioni necessarie per il soddisfacimento delle predette esigenze e per impedire i collegamenti con l’associazione di cui al periodo precedente.”
Uno scopo preventivo, dunque, col chiaro intento di recidere ogni possibile legame tra il detenuto – sia costui condannato o in attesa di giudizio – e l’organizzazione di appartenenza e prevenire eventuali nuovi reati. Obiettivo confermato anche dall’ex direttore generale del Dipartimento detenuti e trattamento del DAP, Sebastiano Ardita, nel suo libro “Al di sopra della legge. Come la mafia comanda dal carcere”:
“Il carcere diventava duro per impedire che da lì partissero gli ordini dei capimafia, non certo perché si volesse far soffrire apposta qualcuno. Non era previsto che si dovesse stare in isolamento assoluto, né venivano imposte sofferenze fini a sé stesse, perché ciò sarebbe stato contro i principi fondamentali che tutelano i diritti dell’uomo”.
Come detto, però, non tutti concordano con l’ex direttore del DAP, ritenendo che il 41-bis abbia anche una funzione implicita. Come troviamo scritto nell’Enciclopedia del Diritto, Annali Vol. II, lo scopo latente alla base della legge sarebbe infatti quello di “fungere da copertura ad un diverso disegno: quello di realizzare, attraverso la creazione di un regime detentivo improntato a grande rigore, uno strumento di pressione idoneo a spingere coloro che vi sono sottoposti a collaborare con la giustizia”.
Al fine esplicito di isolare i detenuti per prevenirne futuri reati se ne affiancherebbe pertanto un altro più sottile: fiaccare mafiosi e terroristi nella speranza di spingerli alla collaborazione.
Sebbene si tratti di un aspetto certamente non dichiarato della legge – dal momento che rappresenterebbe una palese violazione dei diritti dell’uomo, oltre che della Costituzione – e che venga fermamente negato da coloro che ne difendono l’importanza, è tuttavia plausibile pensare che un detenuto al 41-bis possa arrivare ad accettare di collaborare proprio per la durezza delle restrizioni cui è sottoposto. Questo perché la collaborazione con la giustizia – come troviamo scritto in una sentenza della Corte Costituzionale – in quanto principale “criterio di accertamento della rottura dei collegamenti con la criminalità organizzata”, rappresenta la conditio sine qua non per la rimozione del “carcere duro”.
Lungi da noi entrare nell’annosa e indistricabile disputa circa la legittimità degli scopi – latenti e non – del 41-bis, il fine ultimo di questa indagine è piuttosto quello di analizzare attraverso i dati l’effettivo raggiungimento di tali scopi – latenti e non –, in modo tale da provare a misurare la reale efficacia del “carcere duro” quale strumento di contrasto alle mafie.
Per questa ragione, i prossimi episodi della nostra indagine saranno dedicati all’analisi approfondita dei dati e dei risultati raggiunti dopo oltre 30 anni di “carcere duro”.