L’arresto del superlatitante Matteo Messina Denaro e ancor più la vicenda di Alfredo Cospito – l’anarchico detenuto in regime di “carcere duro” che ha da poco posto fine a uno sciopero della fame durato per oltre sei mesi – hanno riportato l’attenzione dell’opinione pubblica sull’istituto del 41-bis. A oltre trent’anni dalla sua formulazione, è utile e insieme doveroso cercare di capire attraverso l’analisi dei dati la reale efficacia di uno strumento che, da un lato all’altro della barricata, non smette di far discutere.
Per questa ragione abbiamo deciso di produrre un’inchiesta divisa in sei appuntamenti. Grazie ad essa ripercorreremo insieme la storia del 41-bis. Ne affronteremo gli scopi espliciti e indagheremo quelli impliciti, così come le sue implicazioni in tema di diritti umani. E, infine, cercheremo di trarre le dovute conclusioni per stabilire se e quanto il “carcere duro” funzioni davvero nella lotta alle mafie.
Nel primo episodio di questa nostra indagine andiamo a vedere le principali tappe che hanno portato alla formazione del testo di legge come lo conosciamo oggi, per comprendere meglio il contesto storico e politico che ha partorito una norma così importante… e discussa.
La storia
Quando comunemente si parla di 41-bis, ci si riferisce alla norma dell’ordinamento penitenziario che regola i differenti aspetti del cosiddetto “carcere duro”, un insieme di limitazioni all’ordinario regime detentivo che lo Stato italiano può riservare a quei criminali macchiatisi di reati particolarmente gravi. Tra questi il più noto, nonché la principale causa di assegnazione di una simile disposizione, è il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso.
Oltre a questo, gli altri reati per cui è applicabile il regime previsto dal 41-bis sono:
– delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza;
– delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù;
– prostituzione minorile, consistente nell’indurre alla prostituzione una persona di età inferiore agli anni diciotto ovvero nel favorirne o sfruttarne la prostituzione;
– delitto di chi, utilizzando minori degli anni diciotto, realizza esibizioni pornografiche o produce materiale pornografico ovvero induce minori di anni diciotto a partecipare a esibizioni pornografiche e chi fa commercio del materiale pornografico predetto;
– delitto di tratta di persone;
– delitto di acquisto e alienazione di schiavi;
– delitto di violenza sessuale di gruppo;
– delitto di sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione;
– delitto di associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri;
– delitto di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti o psicotrope.
È infatti bene ricordare che, sebbene siano molteplici i crimini per cui è prevista l’applicazione del 41-bis, tale provvedimento è riservato quasi unicamente ai detenuti per delitti di natura mafiosa. Come riportato nell’ultima relazione del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria (DAP), su 728 individui sottoposti al regime detentivo speciale, solo 4 di questi non appartengono a consorterie mafiose ma a organizzazioni terroristiche, meno dello 0,6%. Un dato che fa ben comprendere come il “carcere duro”, per quanto applicabile a più categorie di criminali, sia un regime detentivo prettamente destinato ai mafiosi.
Entrato in vigore il 31/10/1986 come modifica alla legge n. 354 del 26 luglio 1975 che definiva le norme di ordinamento penitenziario, l’articolo 41-bis comma 2 ha come fine quello di prevedere – “quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica” – la facoltà da parte del Ministro di Grazia e Giustizia e di quello dell’Interno “di sospendere in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti o internati […] l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza”.
In altre parole, in via eccezionale la legge permetteva di sospendere l’ordinario regime detentivo per quei criminali che si riteneva potessero rappresentare un pericolo per l’ordine pubblico anche se reclusi.
È tuttavia dal 1992, con l’introduzione della legge Martelli-Scotti a seguito degli attentati di Capaci e via D’Amelio, che tale norma assume i tratti specifici che ne hanno fatto un simbolo e un pilastro focale del contrasto alle cosche mafiose.
L’eccidio compiuto a Capaci il 23 maggio 1992 – in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone e sua moglie Francesca Morvillo, oltre agli agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro – spinse infatti le istituzioni a modificare la legge Gozzini del 1986 e a formulare più nel dettaglio i reati che avrebbero potuto portare all’applicazione del “carcere duro” – inserendo, tra gli altri, quello per associazione mafiosa – e le sue specifiche limitazioni del regime detentivo.
Queste limitazioni – diventate effettive il 7 agosto 1992, solo a seguito della strage di via D’Amelio – mantennero un carattere emergenziale e temporaneo sino al 31 dicembre 2002 – quando smisero di essere prorogate ed entrarono a tutti gli effetti nell’ordinamento penale – e raggiunsero la loro forma definitiva solo nel 2009, con un ulteriore, finale inasprimento delle condizioni detentive.
Come visto, ci sono voluti oltre 20 anni per raggiungere un testo di legge definitivo che, ancora oggi e nonostante tutto, non smette di far discutere.
Nei prossimi appuntamenti di questa inchiesta analizzeremo gli scopi espliciti e impliciti del 41-bis, oltre che le implicazioni in materia di diritti umani, proprio per comprendere le polemiche che si porta dietro e per capire se, nonostante tutto, rappresenti uno strumento efficace nel contrasto alla criminalità organizzata.