L’affascinante figura di Polifemo è legata al luogo simbolico della persistenza del tempo: alla terra e alla roccia. Ma parliamo della terra profonda e oscura delle origini dell’uomo, il ricordo della primitività umana, della sua animalità. 

Non a caso il popolo dei Ciclopi è descritto come incivile: privo di socievolezza e delle leggi che regolano la vita in comune (mangiano con le mani, vivono nelle caverne, bevono latte senza trasformarlo in formaggio (cosa aberrante per i Greci che esaltavano le capacità manuali dell’uomo che contrapporlo alla bestialità dell’animale). Inoltre sono creature antropofaghe: si cibano di carne umana. 

La caverna, ma lo stesso stomaco di Polifemo che si ciba dei compagni di Ulisse, rappresentano il passato immemorabile e ancestrale delle origini ma non solo. Cosa più importante che esprime la figura narrativa dell’antro come caverna, bocca che ingoia e stomaco che digerisce è “il sentimento oscuro di una metafisica della vita”. 

Cosa s’intende con questa espressione?

Intendiamo dire che la caverna stessa e l’antropofagia di Polifemo che trasforma il proprio stomaco in antro di vita/morte rappresenta sia il grembo materno che prepara alla vita ma anche il luogo della fine, della morte, più precisamente della dissoluzione della forma. Sotto terra e negli abissi più torbidi vivono creature informi, la vita incompiuta, dove regna il caos e non l’ordine a cui tende la natura. 

Polifemo è, infatti, la vita sotterranea, incompleta, la vita oscura priva di forma e di misura, la forza cieca della volontà della vita informe che si nutre della vita degli individui. L’antropofagia è quindi la rappresentazione della paura ancestrale dell’uomo che la vita di ognuno di noi, della nostra individualità, sia solo il nutrimento della vita stessa: la vita di ogni individuo sorge da una vita sotterranea, priva di forma, che pretende di essere nutrita di nuovo. 

Come scrive il filosofo tedesco Schopenhauer nel Il mondo come volontà e rappresentazione: «la volontà di vivere si nutre della propria sostanza e la restituisce in diverse forme». Per questo motivo Ulisse, nell’antro del ciclope, dice di chiamarsi «Nessuno».

Prima della nascita e nella morte (due cose che si equivalgono perché non si esiste in tutti e due casi) siamo privi di individualità, non abbiamo nessuna storia perché è il racconto della nostra vita che ci individualizza, e la nostra storia che ci identifica e ci differenzia dagli altri.

Ulisse si ribella alla forza oscura della vita che si nutre della vita stessa, a quella natura ingloriosa e beffarda che gioca con la nostra esistenza per annullare con la morte la nostra identità così faticosamente cercata. Dopo l’accecamento di Polifemo infatti, Ulisse esce dall’antro oscuro con la sua individualità intatta: dalla barca mentre si allontana grida a Polifemo il suo nome e la sua stirpe. Una rinascita in cui l’eroe rivendica un nuovo spazio: lo spazio del tramandare; riacquista il tempo lineare della sua storia, si riappropria della sua individualità riprendendo il viaggio per tornare a casa.

Per quanto concerne il tema dell’animalità dell’uomo, l’immagine della fuga della caverna dove Ulisse si nasconde sotto il vello di un ariete è emblematica. È l’immagine duplice di Ulisse, avvinghiato alla sua vita animale (ritrovata all’interno dell’antro) per poi sfuggirne una volta fuori. Ulisse, infatti, quando esce dalla caverna, è la vita animale che sa di non essere soltanto animale, l’eroe affascinato dall’oscurità che scende nella grotta, nonostante il diniego dei compagni. È l’uomo che comprende l’esperienza primordiale della vita prima della vita quando ancora siamo solo “Nessuno”.