Articolo scritto in collaborazione con Osservatorio Globalizzazione

“Noi viviamo in un mondo ossessionato. E lo sappiamo”.
Si apre così il saggio “La crisi della civiltà” di Johan Huizinga, il grande filosofo e pensatore olandese che diede alle stampe per la prima volta il libro nel 1935, nel pieno del decennio che avrebbe condotto l’Europa a completare il suo “suicidio” iniziato nel 1914 con lo scoppio della seconda guerra mondiale. “La crisi della civiltà” ha nell’originale olandese (In de schaduwen van morgen) e nel suo corrispettivo inglese (In the Shadows of Tomorrow) un titolo forse ancora più evocativo, letteralmente “Nelle ombre del domani“. 

E proprio così, evocativamente, potremmo intitolare un libro che decidesse oggi di prospettare scenari futuri per il sistema-Paese italiano. Un apparato ferito nel profondo dalla pandemia, giunta mentre ancora la Repubblica si leccava le ferite da un decennio di crisi e recessione economica, da una complessa tendenza interna allo sfilacciamento politico e sociale, dall’ascesa delle disuguaglianze, dalla fragilità della proiezione internazionale del Paese. Centrato su uno Stato in condizione di sostanziale declino di durata (almeno) trentennale al cui apice, a inizio 2021, l’alternanza tra il governo Conte II e il governo Draghi ha segnato una svolta all’insegna dell’alleanza tra apparati ministeriali, Stato profondo, mondo produttivo e organi politici vegliata e mediata dal perno del Paese, il Quirinale, in nome della prevenzione del collasso sistemico della Repubblica cui il governo giallorosso rischiava, col suo avvitamento e come denunciato da fonti interne di Palazzo Chigi, di portare l’Italia. Tra esplosione della pandemia, caos vaccinale, “Spoon River” economica e volontà di potenza di un Presidente del Consiglio arroccato tra giochi di spie, sovradimensionamenti delle sue ambizioni e controllo su una maggioranza impaurita, la situazione si era infatti fatta decisamente problematica.

Obiettivo raggiunto? Solo in parte. Draghi è asceso al governo in nome della pacificazione sociale e politica. Il suo governo è stato tanto investito da un consenso in campo politico, mediatico e economico senza precedenti per alcun esecutivo quanto caricato di aspettative che trascendono la breve durata di un mandato. Messa al sicuro la campagna vaccinale e posta in essere la costruzione del Piano nazionale di ripresa e resilienza, restano le sfide sistemiche e strategiche a cui nessun uomo, per quanto politicamente cosciente, può in autonomia porre rimedio in poco tempo.

Il “potere frenante” e l’effetto sistemico dell’effetto Draghi non sono stati quelli di una presunta “iniezione di fiducia” al Paese o del tocco taumaturgico portatore una serie di vittorie (politiche, economiche, alcuni laudatores arrivano a dire financo sportive), ma bensì la cristallizzazione dei problemi del Paese in osservazione dei dettami della dottrina presidenziale di Sergio Mattarella. Fondata su due assiomi centrali: da un lato, il richiamo alla tenuta degli apparati e dello Stato inteso in senso lato di fronte alla caducità dei cicli politici nei momenti di crisi; dall’altro, la ricerca della stabilità del Paese nelle coordinate del campo euro-atlantico. Vaccini e Pnrr a parte, il vero “effetto Draghi” o, a dir piacendo, effetto Mattarella sta proprio in questo processo che ha delimitato con precisione il campo di gioco futuro per politica e sistema-Paese in nome di un realismo forse schietto ma applicato inesorabilmente.

Ed è proprio su questo campo da gioco che si addensano le ombre del domani. Che ne sarà della Repubblica in una fase contraddistinta da una potenziale “Grande Tempesta” globale (crisi geopolitica USA-Cina, sfida ambientale, potenziali tempeste finanziarie) e da un’assenza di punti di riferimento interni per la politica e l’economia? Come andare oltre l’era Draghi con coordinate certe e senza perdere di vista né sottovalutare le portate della sfida per il Paese?

Negli anni a venire l’Italia dovrà affrontare il riassestamento dell’ordine euroatlantico, dovrà evolvere nuove relazioni strategiche in campo energetico e politico con la Russia, sarà attenzionata con ogni probabilità come pilastro americano  nel Mediterraneo, si troverà di fronte alla situazione sempre più inquieta del Grande Mare, dovrà recuperare un estero vicino in cui Mosca, la Turchia e altri attori corsari ambigui nei confronti del Paese (Emirati Arabi, Arabia Saudita, Algeria, Egitto) hanno agende ben più concrete tra zone economiche esclusive contese, Libie e Sahel in fiamme, Albania e Balcani. Dovrà affrontare la partita della riforma dell’Europa e fare sponda con Spagna, Portogallo, Grecia e Francia per fugare gli spettri del rigore. Dovrà consolidare il ruolo di superpotenza della transizione energetica che le potenzialità attuali le offrono, giocare da protagonista nelle catene del valore dell’industria di frontiera e della tecnologia. Dovrà capire il suo ruolo nel mondo e, come ha sottolineato la relazione dell’intelligence dello scorso anno, comprendere di star navigando in un mare in tempesta.

Di tutte queste sfide la politica italiana e una classe economica in dissesto non sembrano avere contezza, perseverando in un’introversione continua e perniciosa. Messa sotto scacco da un potere di condizionamento complesso nella sua gestione come la magistratura, ridotta a discutere in Parlamento di amenità e questioni-bandiera di nulla utilità collettiva, priva di elaborazione la politica italiana ha usato lo scudo protettivo del draghismo incondizionato come alibi, non capendo di esser stata di fatto commissariata da un presidente del Consiglio e da un presidente della Repubblica che hanno ragionato in forma sistemica laddove prima governava il piccolo cabotaggio. Le ombre del domani che si stagliano sull’Italia sono quelle di un mondo complesso e sempre più competitivo e in rapida evoluzione di cui a livello decisionale non c’è assolutamente alcuna consapevolezza.

I contraccolpi della crisi di autorità agiscono nella sfera dell’autorevolezza. Disagio sociale, disuguaglianze, povertà resteranno temi all’ordine dell’agenda. Non si può dare ogni colpa al governo Conte II per non aver gestito l’aumento imprevedibile di queste problematiche nell’era pandemica, non si può dare a Draghi l’onere di risolverle nella seconda fase del Covid, ma si può e si deve pensare a una classe dirigente consapevole del valore della difesa dell’unità nazionale in termini pratici e narrativi di fronte alle spinte centrifughe che tali sfide pongono.

L’Italia, parafrasando Huizinga, è un Paese ossessionato, ossessionato dal timore della perdita delle forme residue di sicurezza. Ma, contrariamente alle società degli Anni Trenta, delle sue ossessioni non è conscia. Negli ultimi mesi diversi problemi hanno mostrato fattori di criticità che segnalano altrettante fragilità strutturali pubblici e collettivi: il rave di Viterbo ha segnalato l’esistenza di porosità nella capacità di controllo del territorio e di una ridotta vigilanza politica da parte del ministero dell’Interno; le proteste no-Vax l’esistenza di una criticità notevole sul fronte comunicativo da parte di diversi attori istituzionali e di una fronda estremista le cui pieghe più radicali non sono ancora state conosciute; entrambi ci ricordano come la pandemia non sia stato solo una problematica di ordine sanitario ma anche, e soprattutto, una fattispecie di carattere politico-sociale. Ci segnalano che un anno di limitazioni, problematiche e incertezze hanno generato nella società aspettative di “liberazione” e frustrazioni, speranze e ansie, prospettive di un futuro normale alternate a una retorica emergenziale sempre più logora.

Il grande calmiere, in questi mesi, sono stati essenzialmente vaccini e consumi. Semplificando, si può dire che la fase di calma apparente nella lotta al Covid aperta dall’accelerazione della campagna vaccinale e il ritorno dei cittadini a una vita di socialità, viaggi, incontri abbiano aperto una finestra e portato una brezza d’aria fresca nel  Paese, senza però fugare definitivamente la paura della pandemia, che sfocia in una generale paura del futuro. Le ombre del futuro si addensano sulla Repubblica e non se ne andranno presto. Draghi o non Draghi, non cambia: è una sfida che durerà anni. E rappresenterà l’ultima chiamata per la riconquista della credibilità e del ruolo di propulsore dello sviluppo collettivo del Paese per la politica nazionale.