Il calcio moderno sembra alla continua ricerca di nuovi introiti per gestire un sistema che smuove miliardi di euro ogni anno. Si cercano nuove regole in nome della spettacolarità e dei profitti, ma il rischio è quello che le regole del calcio cambiano in nome del bilancio, trasformando lo sport più diffuso al mondo in un divertimento per i pochi che possono permetterselo.
Il calcio professionistico moderno pare discostarsi progressivamente dal sentimento sportivo delle sue origini, da quel gusto per la competizione, a volte ornata di campanilismi che sanno di rivalse storiche, che trova nella vittoria sull’avversario l’apice ed il senso di ogni sforzo.
Non voglio scadere nella malinconica sterilità di chi guarda con occhi lucidi un campo in terra battuta, ripensando nostalgico a quando i giocatori non avevano neanche i nomi sulle magliette.
Questo sport è cambiato, e non si può non ritornare alle lucide parole di Simon Kuper: «Quando miliardi di persone si preoccupano di un gioco, esso cessa di essere solo un gioco».
Uno sport in evoluzione
Per tutto il XX° secolo il calcio si è evoluto con la società, intrecciandosi in sordidi giochi di potere, di seduzione delle masse e di acquisizione del consenso popolare. In tutto il pianeta le più importanti dittature del secolo scorso hanno usato lo sport, e il calcio in particolare, non solo come contentino, ma anche come subdolo strumento per imbonirsi il popolo.
Il XXI secolo ha però cambiato alcuni equilibri. I progressi sociali e tecnologici hanno reso difficile (non impossibile) la nascita di nuovi regimi totalitari nell’avanzato mondo occidentale e così, alla funzione politica, si è affiancata quella economica.
Non che il calcio sia mai stato immune dalla commercializzazione. Ma il profitto, da fonte di sostentamento, è diventato obbiettivo principale di chi vuole partecipare a questo gioco. E non sempre in modo corretto.
Negli anni abbiamo visto società sportive amministrate e usate come strumenti di riciclaggio di denaro, come monete di scambio per favori politici o economici, come filtro per ripulire l’immagine pubblica.
Realisticamente, dove circolano soldi ci sono potere e interessi atti a mantenere quello status redditizio il più a lungo possibile. Ma che succede quando i mezzi che vogliono sfruttare il sistema finiscono per modificare il sistema stesso?
Le nuove regole del calcio economico
Non parlo di una rivoluzione di tipo tattico, che finisce per modificare le valutazioni dei calciatori (basti pensare a quanto è cambiato il valore dei terzini negli ultimi venti anni), ma di analisi economiche che finiscono per incidere sugli equilibri del gioco.
Le società moderne devono interfacciarsi con procuratori, diritti d’immagine, reparti social, azionisti e numerosi altri fattori nel delicato gioco del bilancio. Questa lotta, una volta delimitata nei confini nazionali, ora avviene trasversalmente in ogni angolo del mondo: federazioni contro Leghe, Leghe contro Club; tutti spingono per cambiare le regole in nome del bilancio.
Le proposte e le effettive modifiche che sono arrivate negli ultimi anni ne sono conferma: la SuperLeague e tutte le sue declinazioni, il Mondiale biennale (e di conseguenza gli Europei), l’aumento costante delle squadre partecipanti ai tornei e/o la creazione di nuove competizioni, l’aumento dell’intervallo con inserimento di show e intrattenimento, la sostituzione dei rigori con gli shoot out o l’abolizione del fuorigioco.
Il tutto per rendere sempre più appetibile un prodotto che lo era già e che lo è sempre stato. Il calcio è uno sport che dentro di sé ha infinite sfaccettature, è uno specchio del nostro vissuto, ma, in qualche modo, più giusto. Nel rettangolo di gioco contano regole diverse, e Davide può ancora sconfiggere Golia.
Immagine che diventa potere
Resta però la ricerca del consenso popolare, che ora ha gli strumenti per essere monetizzato. E così i contenuti social, i comunicati (o i silenzi) sulle questioni etiche e sociali, le operazioni di marketing e perfino l’acquisto di un giocatore, invece di un altro, sono spesso solo modi per vendere fumo.
In un mondo che sembra spingere per l’uguaglianza tra persone, alla ricerca di una sostenibilità ecologica e sociale, gli eventi calcistici più importanti sembrano feste di un pianeta bellissimo che non esiste (un po’ come quella narrata da Niccolò Ammaniti nel suo libro Che la festa cominci), finanziati da petroldollari che arrivano da dittature mascherate da democrazie.
I padroni del calcio odierno vengono da quelle nazioni che occupano stabilmente le posizioni più basse nelle classifiche sulla libertà di stampa o sui diritti civili “concessi”. Russi, cinesi e arabi hanno rilevato alcuni tra i più importanti club del mondo, re-brandizzandone l’immagine per portarla ad ogni tifoso.
Come la City Football Group, la holding fondata dallo sceicco Mansour, il direttore sportivo del Manchester City, nonché membro della Famiglia Reale di Abu Dhabi e Ministro degli Affari Presidenziali degli Emirati Arabi Uniti (più numerosi altri titoli istituzionali).
I Citizens non sono che il club di punta di un gruppo che comprende quasi una squadra professionistica per continente (manca solo un team africano). Un po’ quello che sembrerebbe interessare alla nuova proprietà saudita del Newcastle.
Il Newcastle: l’ultimo di una lunga serie
L’acquisto del club da parte del Public Fund dell’Arabia Saudita ha suscitato molte polemiche, con Amnesty International che ha chiesto invano alla Premier League di considerare le continue violazioni dei diritti umani denunciate nel Paese.
In aggiunta, numerosi enti e aziende di diverso tipo hanno espresso preoccupazioni sul possibile controllo che il Regno saudita potrebbe esercitare sui club e sulla lega stessa. Ma è stato tutto inutile.
Il gioco degli specchi
In questo modo, molte di queste nuove proprietà portano avanti una politica di sportwashing, potendo contare sul calore di tifoserie in larga parte totalmente disinteressate alla vita pubblica, politica e sociale.
Centinaia di milioni di persone che possono esprimere sui social e dimostrare con le carte di credito il loro consenso per questi personaggi forse ambigui ma, cosa più importante, spropositatamente ricchi. E che sembrano anche interessarsi alle questioni sociali.
L’acquisto del fuoriclasse può ridare credibilità e prestigio e un video con i propri giocatori sorridenti davanti ai colori dell’arcobaleno può spazzare via la negazione di alcuni diritti basilari (come confermano gli ultimi rapporti di Amnesty International, Human Rights Watch e Arab Foundation for Freedoms and Equality).
Con il vantaggio ulteriore di acquisire sempre più forza decisionale nelle sale di controllo del calcio mondiale, potendo manovrare i migliori giocatori (e i loro agenti).
Ripensare il calcio come pratica sociale
La FIFA, attore ambiguo di questo gioco, cerca di arginare lo strapotere economico che potrebbe trasformare il calcio in un’oligarchia con nuove e più stringenti norme.
Da luglio 2022 ci sarà un giro di vite sui trasferimenti (anche in prestito) e sul ruolo dei procuratori, provando a delimitare in modo più netto il campo da gioco finanziario. Ma, così come il sistema delle plusvalenze è stato finora abusato per aggirare le maglie del Fair-Play Finanziario, allo stesso modo per le nuove regole verranno individuati nuovi stratagemmi per aggirarle.
Il problema allora andrebbe risolto alla base, senza voler essere troppo ingenui. Tenendo sempre a mente che i ricavi sono necessari per il sostentamento di tutti i personaggi di questo fantastico intrattenimento, bisognerebbe trovare un equilibrio tra lo sfruttamento della passione di miliardi di persone e il senso della morale.
Tetti e vincoli ai movimenti di denaro o parametri più stringenti per evitare conflitti d’interesse (come la nuova norma della FIGC sulle multiproprietà). Ma anche preparare le future generazioni rinnovando la cultura dello sport e della sana competizione.
Ci vuole responsabilità
È una questione di responsabilità condivisa – dalle famiglie alle scuole calcio, fino ai vertici delle federazioni – fornire gli strumenti per non farsi abbagliare, per essere consapevoli delle proprie scelte.
Dai pulcini che tirano i primi calci ai professionisti affermati, che dimenticano da dove sono arrivati. Così da non trovarci fuoriclasse che prestano la loro immagine per sponsorizzare nuove e antiche dittature.
Perché va bene la letteraria visione metaforica guerrafondaia, ma sappiamo che il calcio è un elemento positivo, che porta in sé storie di riscatto sociale e di conquiste civili. È uscito più forte da stravolgimenti storici di ogni tipo e sarebbe davvero triste vederlo infine soccombere al denaro.
Col rischio di diventare appannaggio di una minoranza pronta a elargire oboli a funambolici giocolieri del pallone in cerca di fama, protagonisti di un circo mediatico senza più anima.