La peste nera, una delle più estreme epidemie della storia, colpì l’Europa negli anni ’40 del 1300. Proveniva dall’Asia, aspetto che forse ricorda qualcosa a molti di noi, ed ebbe la sua diffusione “a bordo” di un ratto. Questa malattia, che causava tra gli altri febbre, pustole dolorose, piaghe e aumento del volume dei linfonodi, colpì indistintamente qualsiasi tipo di persona, di qualsiasi classe sociale e di qualsiasi età. Uccise un terzo della popolazione europea ed ebbe risvolti nell’economia, nella medicina, ma anche in ambiti ad essa meno direttamente legati, come quello culturale. Ad oggi pare dimenticato quanto la peste avesse sconvolto il mondo di quel tempo, ridefinendo confini, relazioni ed usanze.
Strascichi inaspettati
Per quanto in parte dimenticata, la peste nera che colpì duramente il continente europeo nel Trecento può, anzi deve suggerire degli spunti di riflessione in riferimento all’attuale pandemia da Covid-19.
Oggi come allora, infatti, una epidemia globale ci impone di rivedere le nostre certezze e abitudini, di pensare a nuovo mondo e a un nuovo modo di vivere. Un po’ quanto successe quasi settecento anni fa, quando le genti di tutta Europa furono costrette a reinventarsi, rimodellandosi sulla base della cruda realtà partorita dalla fine della peste nera.
Nel Trecento, ad esempio, cambiò il modo di gestire e utilizzare le risorse. Si imparò a farne un uso più oculato e conservativo, sfruttando anche il fatto che vi erano meno persone da sfamare. L’agricoltura si concentrò sulla coltivazione di terreni più produttivi dal punto di vista della composizione, ottenendo così materie prime più soddisfacenti sotto l’aspetto nutrizionale.
Anche l’ingegno umano venne stimolato, in modo particolare dalla carenza di tecnici specializzati: un caso è quello degli amanuensi, i cui prezzi salirono notevolmente dopo l’epidemia. Ed ecco che una nuova tecnologia si faceva lentamente strada: la stampa. Mancando poi i soldati perché falcidiati dalla peste, quale migliore momento per implementare lo studio balistico?
L‘isolamento sociale – che ben abbiamo potuto sperimentare in tempi recenti – fu una piaga nella piaga, ma costrinse i superstiti a riorganizzare le loro vite in modo da colmare il vuoto lasciato dalla peste. Era l’inizio di una nuova epoca, un momento di riorganizzazione.
Il capro espiatorio
Anche questo aspetto, purtroppo, ricorda fin troppo i giorni nostri. Come durante l’inquisizione e in altre epoche della storia, lo scoppio della pandemia di peste nera del 1300 spinse a ricercare colpevoli un po’ ovunque. Tra i preferiti vi furono le streghe e soprattutto, ancora una volta e per molte volte a venire, gli Ebrei.
Una volta visto che bruciare persone non risolveva il problema, gli studiosi del tempo cominciarono poi a ricercare l’origine della pandemia nei fenomeni più disparati. E’ il caso di Simon de Cuvino, astronomo belga autore del “De judicio Solis in convivio Saturni”, che ipotizzò che la peste fosse l’esito di una congiunzione tra Saturno e Giove; e del Villani, per cui la peste era stata causata dalla caduta di una cometa sulla terra.
Cronache fuorvianti
La peste nera, e le sue sorelle tra cui quella del ‘600, vantano di essere protagoniste di numerosissime opere letterarie che narrano i loro effetti devastanti.
Grazie a queste importanti testimonianze possiamo meglio comprendere ad esempio quali furono le reazioni della popolazione a queste pandemie, per cui non si conoscevano cure e che sembrava colpire animali, umani e qualsiasi tipo di forma vivente che respirasse, senza lasciare scampo a nessuno tranne alcuni selezionatissimi fortunati.
Non tutte queste testimonianze però sono da considerarsi attendibili. E’ capitato infatti che alcune di queste cronache alimentassero vere e proprie bufale o fake news, che oggi conosciamo diffusamente grazie ai social media ma che già nel ‘300 andavano di gran moda. A differenza di oggi, non essendoci alcun paragone o dato certo per fare confronti, molti autori si sentirono infatti autorizzati ad esporre studi poco o per nulla verificati, alimentando un fenomeno che conosciamo fin troppo bene.
E realistiche
Moltissimi tra loro però, costituiscono ancora oggi una fonte importante per comprendere meglio la terribile realtà dell’epoca. E’ il caso del senese Agnolo di Tura, le cui parole di dolore per l’aver dovuto seppellire i propri figli non conoscono il passare dei secoli: “E io Agnolo di Tura detto il grasso, sotterrai cinque miei figliuoli co’ le mie mani; e anco fuoro di quelli che furono si mal cuperti di terra, che li cani ne trainavano e mangiavano di molti corpi, per la città.”
Il Villani, conoscente del Boccaccio, racconta come: “[…] le madri é padri abbandonavano i figliuoli, e i figliuoli le madri e’ padri, e l’uno fratello l’altro e gli altri congiunti.” Il clima di terrore, i moltissimi abbandonati in giacigli improvvisati a bordo via per morire in solitudine e finire presto divorati da cani e maiali: scene di un passato che purtroppo, negli ultimi anni, sembrava essere tornato a bussare alle porte del presente.
Tra letteratura e medicina
Eppure la peste nera ci ha insegnato che anche, e forse soprattutto, dalle tragedie si può imparare.
Boccaccio trasse spunto dalla pandemia per farne arte creando il celebre Decameron. Perse molti amici e conoscenti durante il morbo ma non mancò di trarne qualcosa di positivo, immaginando il fiorire culturale dei giovani rinchiusi in quarantena. Tra novelle inventate e gentili modi di convivenza Boccaccio fu in grado di far divertire, rendendo anche solo per un attimo la peste quasi positiva, capace di creare congregazione e non divisione accomunando giovani di intelligenza nel comporre un poetico, educato, piacere.
Tra chi cercava cause e chi invece ne traeva insegnamento morale, vi fu anche chi sviluppò un parere medico sull’accaduto, e non a torto. Tommaso de Garbo, medico bolognese riuscì a capire, in modo singolarmente lungimirante, che la risposta alla pandemia era isolarsi. Scappare, andarsene, salutare tutti e non esserci più. E quale miglior luogo di rifugio dall’aria putrida delle strade malsane della città se non la campagna? Un’intuizione che salvò la vita di molte persone, ovviamente solo di coloro che avevano la possibilità di rifugiarsi in una dimora nel verde e pregare quanti più santi.
Oggi come allora
Come detto, la peste riuscì pertanto a partorire anche buone conseguenze di cui forse, oggi, potremmo e dovremmo apprezzare il senso costruttivo.
A parte le reazioni iniziali, che andarono dal minimizzare (forse ricorda qualcosa la frase “è solo un’influenza”) alla sensazione di morte imminente (si vedano i telegiornali durante il nostro lockdown, micidiali per una buona fetta di popolazione senza accesso a metodi di verifica della correttezza delle informazioni ricevute), moltissimi aspetti della peste del ‘300 ci ricordano la “nostra” pandemia.
Dai posti di blocco alla chiusura in casa, dalla mancanza di contatti personali alla ricerca disperata di un capro espiatorio. Dalle fake news, alla mancanza di dati veritieri, l’avvento di internet e la diffusione della tecnologia non ci hanno salvati neanche stavolta dall’intorbidimento delle nozioni e dei dati puri che ci avrebbero aiutato a capire meglio la trasformazione del mondo cui andavamo incontro.
La lezione dimenticata
Non parliamo di nuove frontiere della medicina e neanche di cambiamento delle abitudini alimentari di determinati Paesi dell’Asia, seppur auspicabili.
La lezione che dovremmo cogliere dall’esperienza della peste nera è quella del rinnovamento trasversale all’indomani di una tragedia. Una tabula rasa su cui scrivere riforme in grado di perfezionarsi e migliorare i decenni a venire. Apertura mentale e sociale, nuove frontiere della sensibilità comune e dello sguardo e cura del prossimo.
Oggi noi dimentichiamo ciò che la pandemia vuole dirci di più profondo. La cura di ciò che sfruttiamo, la considerazione del nostro impatto nel mondo, l’evidenza dei problemi che affliggono la terra di cui noi siamo causa e che non si possono ignorare.
Ecco cosa abbiamo dimenticato, ecco cosa non abbiamo saputo leggere nelle cronache del tempo. Un manuale d’uso del nostro futuro recuperato dal passato, ma che ancora, come studenti svogliati, non vogliamo imparare.