1961, una troupe sta salendo all’esterno del grattacielo Pirelli sul carrello dei lavavetri. Il palazzone, che prosegue la corsa verso l’alto, è il simbolo dell’Italia del boom economico, trainata dal nord-Italia, che si industrializza e cresce senza sosta. Il giornalista sbircia dietro i vetri e commenta le meraviglie della modernità. Si sale e si sale ancora, in un’ascesa verso il cielo. Mille suoni si combinano l’uno con l’altro, un rumore che persino a quell’altezza non riesce a disperdersi nell’aria.
1961, un gruppo di speleologi ha deciso di avventurarsi in una grotta calabrese, l’Abisso del Bifurto, ancora inesplorato. Si scende e si scende, è una mappatura del buio, di cui si cerca di vincere le maglie con un filo di luce. Il silenzio regna, i rumori si amplificano, riverberano, si fanno strada nel buio. Giù, fino al fondo, 687 metri, in quella che al tempo si rivelò essere la terza grotta più profonda al mondo.
I due movimenti, verso il basso e verso l’alto, sono il riflesso del contrasto tra un cinema che vuole farci salire sempre più veloce, spettacolare e imponente, e un cinema che, al contrario, vuole esplorare, guardare giù, alle zone oscure, mostrarsi nelle sue velature e i suoi coni d’ombra, nei silenzi più che nelle roboanti parate di effetti speciali e suoni. L’idea di cinema di Michelangelo Frammartino, un cinema dei sussurri, una poetica portata avanti sin dai primi passi e culminata con Le quattro volte. È l’Aesthetic of Slow, il rallentare, il girare in punta di piedi, propria dello Slow Cinema; ma è anche un’esplorazione, tra le pieghe del visibile e dell’ascoltabile. E se il cinema è intrinsecamente legato al visibile, Frammartino con Il Buco, dallo scorso 23 settembre nelle sale, porta all’estremo le possibilità del mezzo cinematografico, rievocando quella spedizione del 1961 e avventurandosi nell’Abisso del Bifurto, in Calabria. Di fatto, l’ultima pellicola di Frammartino è il tentativo di portare la fioca luce del mezzo cinema nel buio.
A undici anni dal suo ultimo lavoro cinematografico, Le quattro volte – intervallato da videoinstallazioni come Alberi –, Frammartino prosegue la sua personale ricerca e di fatto Il buco ne è la naturale continuazione, forse a volte fin troppo vicina all’estetica del lavoro precedente. Non è un caso che le parti migliori, che portano la ricerca delle immagini su un nuovo piano, siano proprio quelle girate in profondità, nel buio. A queste si alterna la storia di un pastore calabrese, che persino nei lineamenti ricorda l’unico protagonista umano de Le quattro volte.
È come se le due storie, i due film, fossero legati tra loro da un filo tenue, la corda che fa avventurare gli speleologi più giù, alla ricerca di strade percorribili, di nuove possibilità di cinema. È un processo che porta progressivamente dal visibile all’invisibile, dai grattacieli delle immagini di repertorio, alla vita lenta e silenziosa dei pastori, fino all’esplorazione del silenzio dell’abisso. I richiami per la mandria diventano fischi per ritrovarsi nell’oscurità, le riviste di Epoca anziché esser lette bruciano per farsi tizzoni ardenti e illuminare il fondo con la forza del fuoco. Gli spazi si stringono, il tempo rallenta quasi fino a fermarsi e diventa di una consistenza diversa. È un tempo sepolto, inconscio, e non è un caso che Frammartino abbia citato per questo suo nuovo film la coincidenza curiosa e peculiare tra la nascita della speleologia e quella della psicoanalisi, nel 1895 – senza dimenticare, tra l’altro, che in quell’anno nacque anche il cinema.
Così, quello che lascia Il buco alla fine del viaggio è il senso precario e appena visibile del suo fondo: tornare dal buio della grotta (e della sala) alla luce di tutti i giorni. Il silenzio comincerà a cedere nuovamente il passo al rumore, eppure quel fondo silenzioso rimarrà sempre lì, inestirpabile dal suo abisso. E dopo averlo domato per qualche istante, lo si porterà con sé cercandolo di tradurre: una tenue luce, appena visibile, da qualche parte dentro noi.