La figura di James Bond, l’inglese di finzione più noto al mondo insieme a Sherlock Holmes, ha sempre messo d’accordo il pubblico del grande schermo (i romanzi di Fleming sono meno noti), ma ha diviso critici e intellettuali. Il suo personaggio è sì un mito sempreverde, ma nella sua figura risiedono molti stucchevoli stereotipi dell’uomo bianco e occidentale, avvenente e vincente, facoltoso e seducente.
Sean Connery è il nome dello scozzese che ha dato un volto a Bond. Poi, facendo un balzo in avanti che investe parecchi anni, non pochi film e un successo commerciale di grandiosa portata, cosa è seguito? Ai bei tratti di Connery sono seguiti tratti diversi, quasi sempre apollinei: cinque sono stati i Bond in tutto, abbastanza per vedere in ognuno tra loro un uomo differente, pur mantenendo vivi – ma è davvero così? – i connotati originari di quello che in fondo è stato un avventuriero prima, una spia sempre, un uomo d’azione in un momento secondo.
007, il classico per eccellenza: Sean Connery
Seduttore sempre in abiti di sartoria, ma mai nella parvenza di un pinguino, il Bond di Connery è talmente classico da lasciare uno spazio quasi nullo all’interpretazione. Certo è forse più estroverso, più donnaiolo e meno complesso di come lo volle Fleming nei suoi romanzi, ma è indubbiamente un uomo d’azione e non un intellettuale, pur dotato di un’ovvia intelligenza pratica senza pari. Il canovaccio dei primi Bond è ancora fantasioso, ma non sarà così per molto. Nel suo Bond si ravvisano già quei caratteri molto “occidentali” che saranno ancora più marcati dal profilo di Roger Moore.
George Lazenby, un James Bond speciale: il gioiello “On her majesty’s Secret Service”
Ex modello e attore che non passa alla storia, l’australiano Lazenby è il secondo James Bond. Veste i panni dell’Agente soltanto una volta. Il suo contributo, come anche il film, è una meteora, però lascia qualcosa di speciale: è un Bond diverso dal solito, per una sceneggiatura atipica e un senso di tormento che non si era mai visto; per di più l’Agente, seguendo il romanzo, pur noto donnaiolo, questa volta s’innamora e si sposa: ma l’epilogo è drammatico. Due sono le donne che hanno segnato l’esperienza “bondiana”, dimostrando che il personaggio non è un manichino dongiovanni valido solo per il one night stand.
Lazenby gli attribuisce un connotato malinconico che gli dà un alone particolare, ma sono soprattutto i caratteristi di contorno ad alzare il livello: Telly Salavas è “il” cattivo per eccellenza e partecipa alla giostra anche una nostra vecchia gloria, Gabriele Ferzetti. A distanza di ormai oltre cinquant’anni – il film è del 1969 – il lungometraggio è diventato di culto, anche se rimane in fondo marginale: molti lo considerano il migliore della serie per il suo carattere a sé stante, ma per decenni una buona maggioranza di fan del personaggio di Fleming ha decisamente ignorato o screditato questo film che, quando uscì, lasciò tutti un po’ scontenti.
L’incontrastata eleganza di Roger Moore in un filone occidentalista
Dopo l’eterodossia di Lazenby e il breve ritorno di Connery, la palla passò a Roger Moore, scomparso qualche anno fa. Fu il più “longevo” degli 007, nonostante alla lunga volle più volte disfarsi di quel personaggio, abbandonarlo anzitempo. Con lui Bond tornò estroverso come lo era stato con Connery, donnaiolo certo e, non di meno, assai ironico, anche più del primo. Forse troppo, tanto che l’ironia, in quegli episodi, finì per farsi tragicamente parodia. Se, come abbiamo detto in apertura, Bond è assurto allo stato del maschio alpha occidentale per eccellenza, qui lo status homo occidentalis raggiunge la vetta.
Anche per certe ambientazioni sempre più esotiche. Certo non solo il Bond di Moore viaggia dappertutto, anzi, il tema è trasversale a tutte le “saghe dentro la saga”, ma un certo occidentalismo si fa prevalere come non mai: i popoli dell’est o dell’Africa finiscono per essere messi in mostra come in un Museo folkloristico.
Le belle donne non mancarono, ovviamente, anzi aumentarono a dismisura, e anche questo aspetto non giocò a favore delle serietà della serie. Bell’uomo dai tratti chiari, Moore immise nel personaggio il fascino del gentiluomo maturo, tanto è vero che aveva 58 anni quando fece la sua ultima interpretazione dell’Agente. Tutti hanno un buon ricordo del suo Bond e della sua signorile, britannica persona.
La parentesi Dalton, l’introverso sottostimato
Certo non si può dire che la breve parentesi di Dalton, anch’essa tormentata, sia passata alla storia con chissà quali furori. Due furono gli episodi, entrambi ricchi d’azione e con un Bond più ritirato e meno effervescente di come lo aveva lasciato Moore. Forse, è il caso di dirlo, un Bond più vicino a Fleming e dunque meno frivolo e donnaiolo (anzi, s’innamora), più introverso, meno caciarone. La politica internazionale e gli intrecci senza fine, ovviamente, proseguirono con il britannico in giro per il mondo. Ma il divo si era fatto meno macho: il problema, semmai, è che cominciò a somigliare troppo a Indiana Jones.
D’azione e di Trincea il Bond di Brosnan
Brosnan è un Bond a suo modo atipico, eppure non stravolge affatto il personaggio: con lui l’Agente torna a farsi estroverso, ma in più anche “gagliardo”: pone l’accento su una dimensione fisica, scattante, sportiva, giovanile. Dalla sua, un fisico perfetto, aitante e un volto con la mascella scolpita, molto “anni ‘90”. Sarà proprio Brosnan a denunciare, anni più tardi, la “deriva” di una nuova saga Bond che dopo di lui avrà perduto l’ironia.
L’ultimo James Bond non è James Bond
Daniel Craig, complici anche sceneggiature diverse, cambia il volto a 007: la saga si distanzia sempre di più dal codice narrativo “classico” che l’aveva caratterizzata, e prende un suo volto. L’azione si fa più cupa, il ritmo più serrato: i film sono molto violenti, l’ironia viene a mancare, Bond si fa più introverso e ombroso, quasi plumbeo. Lo diremo meglio alla luce dell’ultimo episodio, uscito il 30 settembre 2021 e che sarà l’ultimo con Craig protagonista.
Un gangster neofascista?
Secondo un’ottica intellettuale, Bond è un personaggio ripugnante, tanto che Le Carrè lo definì un “gangster neofascista”. Secondo invece un’ottica popolare, quella di chi lo guarda senza pretese, è un mito: in fin dei conti, fantasticare su belle donne, avventure esotiche, abiti di sartoria e orologi di lusso è un piacere per molti…