Era domenica (la seconda di settembre) e Asia si svegliò col proposito solenne di decidersi. Non sapeva più che combinare di sé stessa, dove impiegarsi, perché impegnarsi. Ogni volta che si trovava davanti al proposito di un’attività, anche la più semplice, come iscriversi a un corso in palestra e continuarlo, oppure iniziare un lavoretto, un’ansia tremenda l’assaliva.
Da sei mesi ormai si era laureata in antropologia e adesso non sapeva più dove andare a parare; Asia in realtà aveva mille interessi: le piacevano il cinema, la musica, amava molto anche dipingere e disegnare. Per questo dopo la triennale aveva deciso di iscriversi a una scuola di fumetto, ma, pensando che non fosse la sua strada, era tornata sui suoi passi, ripiegando sull’università.
Ogni giorno ne escogitava una nuova: “Se partissi per uno SVE? Se prendessi i contatti per raccogliere la frutta in nord Europa? Se mi iscrivessi a un corso per diventare arredatrice di interni?”.
I suoi genitori, due ex professori di letteratura italiana (Asia era tornata a vivere con loro dopo gli studi, per riflettere), la spingevano molto a insegnare nelle scuole, perché, in fondo, era un lavoro assicurato, dignitosamente pagato – certo bisognava superare il concorso, iniziare con le supplenze – ma poteva essere un bel mestiere.
Asia aveva accettato una supplenza in una scuola media: invasa dal panico era entrata in quel dedalo di corridoi abitati da inservienti azzurri e mascherati, per via del COVID, e da ombre di docenti nascosti dietro pile di libri sbilenchi, scogliotici, e ragazzini scorrazzanti, diretti verso il parco, merenda alla mano, quando la campana della ricreazione suonava, per i dieci minuti di tregua.
Venerdì e sabato le era sembrato di vivere in un incubo: non sapeva bene come porsi. Doveva firmare il registro cartaceo e il registro elettronico. Reperire dei libri, che però non c’erano… Appena arrivata, aveva bussato in segreteria studenti: “Buongiorno. Sono Asia Serrai. La supplente di Italiano…”
“Ah, sì. Lei sostituisce la Milleluci”.
“Non lo so, non mi è stato detto niente…”.
La segretaria – una donna nervosa, dalle spalle alte, i capelli biondo sporco penzolanti fino al tailleur blu scolorito e gli occhi, gli occhi intacconiti dietro un paio di lenti cerchiate di nero tutte storte e pendenti verso destra – le consengnò un plico di fogli:
“Qui c’è il suo orario. La piantina della scuola. E alcune norme. Adesso vada di là, per concludere la pratica”.
Asia bussò alla porta di fronte, l’ufficio della Segreteria Amministrativa; la misero in un angolino a compilare dei fogli infiniti: scrisse dodici volte il suo codice fiscale, nome e cognome, quando era nata e la sua via di residenza.
Poi incontrò la vicepreside, che le disse qualcosa, ma trovò fosse molto, molto simile alla segretaria dagli occhiali storti e non riuscì bene ad afferrare il senso delle sue parole, né ad orientarsi in quel mucchio di informazioni riversatole addosso senza gentilezza e senza pietà.
Alle otto e dieci suonava la campanella: Asia aveva un’ora libera, così ne approfittò per recarsi in aula insegnanti. La preside (o era stata la segretaria?) le aveva lasciato scritto il numero della docente che sostituiva. Asia le telefonò, in attesa di qualche dritta.
“I ragazzi sono indietro, molto indietro. Io mi sono rotta non una gamba, ma due, non so bene quando tornerò, comunque la situazione è grave, molto grave… Hanno cambiato quattro supplenti in un mese, l’anno scorso, è una vergogna! Non è possibile che il ministero permetta questo mordi e fuggi… La docente prima di lei è stata un giorno e poi è partita, perché le hanno offerto la cattedra annuale di sostegno… capisco che il posto è allettante, sicuro, ma non si può abbandonare i ragazzi così! Perdono fiducia nella scuola, e negli adulti”
“Ok… Senta, ho controllato nel suo armadietto, i libri di testo delle terze non ci sono…”.
“Non ci sono? Come non ci sono? A quanto pare la supplente prima di lei non li ha riportati. Santo cielo! Che vergogna! Le lascio il numero della supplente, provi a contattarla”.
Asia telefonò alla supplente di prima, che in effetti si era dimenticata di depositare i libri nell’armadietto.
“Li porterò domani pomeriggio, oggi non posso”.
“Ma… Dovrei fare lezione due giorni, senza libri?”.
“Si calmi, sono ragazzi tranquilli”.
I ragazzi erano calmi, forse, ma Asia non era tranquilla per niente. Erano anni che non riusciva a darsi tregua: come poteva farlo adesso? Suonò la campana della seconda ora: doveva entrare in aula.
La lezione filò più liscia del previsto: chiese ai ragazzi di presentarsi; in particolare, dovevano trovare una cosa, o un’attività che amavano, e, al contrario, una cosa, o un’attività che odiavano. Poi salire, di fianco alla cattedra: a voce alta, definire con tre aggettivi la sensazione che provavano quando si dedicavano a quell’attività. L’esercizio consisteva nel scegliersi tre compagni, e, rivolgendosi ad ogni compagno con uno dei tre aggettivi, lasciar che le parole risuonassero con intensità, emozione… non in un “dire” piatto, lasciato al caso. Asia fu soddisfatta.
Provò a ripetere l’esperimento nella terza dell’ora dopo, ma il tentativo si rivelò fallimentare. Appena entrata in classe, un brusio disordinato le perforò le orecchie, stordendola e scaraventandola in una trepidante dimensione di panico; un ragazzino biondo, bassetto, alzatosi sulle ginocchia mezze piegate, domandò: “Prof, lei è definitiva?”.
“Sì, rispose Asia”, come da addestramento (poco prima di entrare in terza C, la collega di sostegno le aveva consigliato di rispondere così).
“Abbiamo avuto tre supplenti prima di lei, in un mese”, rimbeccò il ragazzino:“E tutti ci dicevano di essere definitivi”.
“Ragazzi…” sospirò Asia, afflitta, sentendosi svuotare il petto dal didentro e rinfossandosi tutta, le spalle curve in avanti. Poi, riprendendosi d’animo, raddrizzata la postura, il petto ringalluzzito di aria e di energia, aggiunse: “Io ho l’incarico per una settimana. La vostra prof dovrebbe tornare lunedì prossimo, ma non è sicuro”.
Subito la classe irruppe in un boato convulso di esclamazioni, chiacchiere, qualcuno in fondo all’aula si alzò in piedi, altri balzarono dalle sedie per igienizzarsi le mani al flacone vicino alla porta, senza permesso.
“Silenzio! Zitti! Zitti!”.
Asia si sentiva malissimo. A nulla servivano le urla, le grida e i richiami all’ordine; non aveva presa, non la consideravano… Tirò fuori dalla borsa un grosso libro (l’antologia Compagni di Viaggio per Insegnanti, unico strumento didattico che era stata in grado di reperire) e, con impeto iroso, lo schiantò sopra il banco libero, in prima fila, ripetutamente. Una, due, tre volte… La classe tacque.
Asia era stremata: le tremavano le gambe e la voce. Cercò di intavolare un discorso circa l’importanza della lettura ad alta voce, l’importanza di ascoltarsi e di ascoltare.
Chiamò in cattedra gli studenti, uno per uno, come nell’altra classe, ma la magia era scemata. Asia era troppo nervosa, arrabbiata, e anche il senso dell’esercizio era stato messo a dura prova dal disordine e dal vocio: i ragazzi scherzavano e ridevano troppo, per potersi concentrare davvero.
Un ragazzino (si chiamava Michelangelo) amava la mountain bike. Cercò tre aggettivi per descrivere come si sentiva, quando saliva sulla sua bici fiammante:
“È bello. Mi sento liberato. Adoro quella sensazione quando stai per salire, arrivi su, e poi ridiscendi…”.
“Aspetta”, esordì Asia: “Esistono parole più adatte, più precise, per descrivere questa sensazione? Costruiamo una frase più pregnante”.
Michelangelo rideva d’imbarazzo, perché faticava a rispondere, subito, alla richiesta. La classe lo spalleggiava con battutine e altre infiltrazioni di senso.
“Aspetta, Michelangelo. Regaliamoci il tempo per sentire, e per pensare. Quando pedali lungo una salita, il sudore ti imperla la fronte, l’aria fresca ti sferza le guance come un balsamo, o una pioggia d’acqua tiepida, fredda?”.
“Dipende dalla stagione”.
“Giusto, Michelangelo; il sole o le nuvole in cielo disegnano arabeschi scherzosi lungo i tuoi occhi, che socchiudi, per filtrare la luce e l’ombra del giorno. Tu pedali, sforzandoti, ma è lieve lo sforzo…”.
“Sì, è liberatorio…”.
“Tu noti il confine della salita, intravedi la sommità, come una catastrofe annunciata, la fine di un mondo. Corri ancora, atletico persisti, smaniando per la discesa che verrà perché lo sai: dopo quel punto, dopo il punto più alto non c’è il nulla, ma la discesa…”.
“Sì, la discesa… ma lei è russa, prof?”.
“Prof, che bel cappotto…”.
Battutine, ancora. Asia s’ingannò a non sentire, a non ascoltare. Rimandò Michelangelo a posto: “Ragazzi, mi avete fatto molto arrabbiare. Siccome non riesco a finire un lavoro libero, con voi, vi devo costringere a scrivere un tema”.
Ma Asia aveva il vuoto nella testa: si trovava lì, davanti a 26 tredicenni scalmanati. Le premeva soltanto incantare la classe, interessarli… Ma a cosa? Lei per prima aveva perso l’interesse verso la vita intera. Però, forse, un’attività che ancora non odiava del tutto c’era: le piaceva leggere a voce alta, sì, non ai livelli di un doppiatore professionista, ma era brava.
Fare innamorare i ragazzi alla lettura, lasciare che l’emozione potesse trasparire, oltre le parole quotidiane pronunciate ora con noia, ora sbiascicate senza estro, in balia del tedio, del piattume… l’esercizio di prima: tre aggettivi per descrivere cosa ami. E le parole erano buttate lì, a metà fra l’imbarazzo e lo scherno, a bassa voce, tanto per rispondere a una domanda obbligata, dalla quale si sarebbe preferito disviare. Cosa escogitare adesso, per ottenere l’attenzione della classe?
Asia si sentiva tremendamente fuori luogo. L’insensatezza della sua presenza, l’insensatezza del sistema del reclutamento supplenti e quei ragazzini buttati lì, loro malgrado, obbligati a stare, in quei banchetti minuscoli…
“Eppure devo ritrovare il senso, e la concentrazione. E il bello. Sì”.
Di nuovo un gran fracasso. Con furia sbatté tre volte il libro di testo sopra il banco, e ordinò: “Scrivete un tema, di almeno una pagina. La consegna è questa: immagina di vincere un biglietto di sola andata, diretto verso un castello isolato. Inserisci figure e temi tratti dall’immaginario romantico. Potete iniziare adesso, vi dò un’ora di tempo”.
Era l’ultima ora del venerdì. I ragazzi chiacchieravano fra di loro. Asia passeggiava fra i banchi, cercando di attivare quelle menti svagate. Alcuni ragazzi chiedevano consigli. Lei fu contenta di aiutarli, uno per uno, alla cattedra, leggendo i primi esperimenti narrativi insieme.
Suonò la campanella. Accompagnò tutti fuori.
Il sabato seguente aveva storia (Napoleone) e grammatica in terza C. Tutto filò liscio. In terza B cercò di ottenere un minimo di silenzio e di organizzare l’orario della settimana. Fissò una verifica di grammatica per giovedì.
Nel pomeriggio, dopo aver incontrato la collega di prima che le aveva riconsegnato i libri, passò a trovare la Milleluci (una signora sui 47 anni, dai capelli castani tutti arruffati, corpulenta e ben piantata, sulle stampelle plasticose). Abitava poco lontano dalla scuola, in una strada di case a schiera; quando le aprì la porta, la donna si presentò ben ingolfata in una tuta rosa con la zip; dalla cintola in giù, dei pantaloncioni grigi, felpati, la rendevano molto simile a un grosso cuscino coccoloso, di quelli che si tengono stretti in salotto, nelle gelide sere d’inverno, davanti al televisore. La invitò a salire le scale che dal giardino conducevano all’abitazione. Asia sganciò il cancelletto verdognolo e avanzò malcerta, facendosi scortare fino alla cucina; un ambiente piccolo e raccolto, colmo di oggetti d’ogni sorta: vasellame con gatti dipinti di rosa e d’azzurro, libri di testo sul tavolino piazzato al centro, e due gattoni grigi, in carne, distesi sul divano ricoperto da un telo bianco, di fianco alla finestra minuscola, sulla destra. La luce del pomeriggio filtrava grigia e sonnacchiosa, come irreale; trasognato, il chiarore delle nubi si faceva largo pigramente, fra i rami dei pochi alberi in giardino, avvolgendo le stoviglie, i libri, le penne, il mobilio – in una cappa di indolenza generale.
La Milleluci le consigliò delle attività didattiche possibili: schemi sul risorgimento, geografia, eccetera. “Mi raccomando: per qualsiasi dubbio chiedi; è il tuo primo incarico, posso capire lo smarrimento iniziale”.
Asia era in una strana bolla; la Milleluci le metteva ansia, con quel suo modo sbrigativo e al contempo naturalmente disponibile, solerte di chi, esperto del settore, ha esperienza del sacrificio, del martirio che implica il mestiere. Le sorse un dubbio: “Ma il libro di grammatica… non me l’ha lasciato la collega”.
“Come? Ma come?”.
Tornata a casa, Asia con calma diede una scorsa al registro elettronico e al sito della scuola.
Si rese conto che il titolo del libro di grammatica era segnato, e che riposava, fisicamente, nell’armadietto della Milleluci, già dal primo giorno di sostituzione. Lei lo aveva preso e messo in borsa, ma siccome c’era scritto “Sintassi” e non “Grammatica” si era convinta che non fosse quello.
Perché non prestava attenzione? Perché era così impanicata? Non voleva farlo. Non voleva farlo. Lei odiava sia la sintassi che la grammatica. Non voleva insegnarla ai bambini.
Domenica mattina si svegliò con l’imposta solenne di risolversi, ovvero suicidarsi.
Ma non si risolse.
Lunedì mattina fu il suo ultimo giorno.
Quando uscì di casa era ancora buio. Una brina umidiccia imperlava il vetro anteriore dell’auto (la panda blu elettrico di sua madre) di condensa oziosa, dura a scalfirsi; aprì la portiera, balzò sul sedile, accese l’aria calda e si preparò al viaggio: venti minuti circa, in una strada relativamente tranquilla. Dopo pochi minuti, arrivata alla grande rotatoria che l’avrebbe condotta fuori città, si spensero i lampioni.
“Ecco: è ufficialmente giorno”.
La voce metallica, maschile del navigatore, dal suo telefono, indicava passo dopo passo le strade da imboccare.
“È il mio terzo giorno… Avrei dovuto imparare la strada già. Da domani dovrò saperla a memoria, così potrò soffermarmi, al mattino, su altri dettagli”.
Restava concentrata sulla guida, ma tentava anche di captare ogni dettaglio di luce, ogni sfumatura di foglie, nuvole, cercando di non lasciarsi sfuggire i colori delle case rurali, crepate, con ciuffi di edera selvatica straripanti dagli infissi guasti, i mattoncini rossastri cadenti, con quelle tegole messe sù l’una sull’altra alla rinfusa; fra l’erba incolta – calcinacci.
La sua zona vantava molti luoghi ceduti all’abbandono: dimore rurali fatiscenti, case cantoniere senza cantoni, cimiteri derelitti e vasti campi incolti, di proprietà comunale, o di privati fantasmi. Le colline dolci, basse, custodivano quei luoghi in un silenzio languido, inerte, che le ispirava a volte pace, a volte invece, in quel medesimo silenzio, Asia era assalita da una rabbia densa, depressa, impotente: il rancore di chi vorrebbe gridare alla rivolta, spezzare una quiete accidiosa e malsana, ma senza riuscirci.
Parcheggiò nei pressi della solita chiesetta, poco lontano dalla scuola. Prima di uscire si scrutò il viso nello specchietto frontale dell’auto e lo sorprese stanco.
Imbracciò lo zaino nero e si diresse verso l’edificio. Alcuni studenti, da soli o in gruppi, camminavano, come lei, zaino in spalla, cartellina alla mano. Si chiese se quei ragazzi fossero tanto infelici quanto lei. Alcuni, per certo, erano più energici, più sicuri di sé, e con una più alta concentrazione di serotonina nel sangue rispetto a lei, la prof.
Non si ricordò, Asia, che cosa successe esattamente quel giorno.
Seppe solo che fu licenziata.
Per abbandono di minori.