Nel 1993 il politologo statunitense Samuel Huntington pubblicava sulla rivista Foreign Affairs un articolo dal nome “Lo scontro di civiltà”. Di lì a tre anni Huntington, noto anche per essere stato il “maestro” di Francis Fukuyama, arrivò a scrivere un intero libro sull’argomento. La tesi di fondo, figlia della fine del bipolarismo e della tradizione conservatrice repubblicana, si basa sull’identificazione di civiltà distinte in contrasto tra di loro non più per motivi ideologici, come nel corso della guerra fredda, ma per diversità culturali, religiose e linguistiche. Le linee di confine tra le diverse civiltà vengono viste da Huntington come le aree in cui si avranno con maggiore facilità degli scontri. Uno dei presupposti su cui si basa la tesi del saggio è il mutamento demografico che, insieme alla crescita economica di paesi come Cina e India, ha dato luogo a un processo di “de-occidentalizzazione” in cui si alterano gli equilibri tra paesi in un mondo sempre più moderno e interconnesso. 

“Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale” è sicuramente una delle pubblicazioni più citate e influenti negli ambiti politici e accademici degli ultimi decenni. A più di 25 anni dalla pubblicazione del saggio ciò che emerge con chiarezza è che la visione del mondo e delle sue divisioni che viene proposta da Huntington, e che ancora oggi viene accolta da gran parte delle destre nazionaliste, è figlia di una concezione che vede nell’Occidente e nei suoi valori un irreplicabile modello di sviluppo che si contrappone al mondo circostante. Una visione che si incastona perfettamente nel pensiero di uno dei fondatori del movimento neo-conservatore che ha vissuto in prima persona la decolonizzazione. 

L’esistenza di differenze, più o meno marcate, tra le diverse popolazioni che abitano il globo terrestre è un dato di fatto indiscutibile. Il mantenimento del sistema post-westfaliano basato sull’esistenza degli stati-nazione, tuttavia, rende difficile ridurre la complessità culturale e le differenze etnico-linguistiche interne agli stessi paesi (si pensi alla Cina) al modello semplicistico presentato da Huntington. Ma ciò che risalta è l’accento e l’enfasi che vengono poste sul concetto di “scontro”, visto come prodotto inevitabile delle incolmabili differenze che separano tra di loro le varie civiltà. Uno scontro che viene teorizzato da Huntington in chiave principalmente difensiva ma che verrà declinato, negli anni, fino ad assumere una connotazione tutt’altro che passiva. 

(Wikimedia)

L’allora presidente americano George W. Bush in un discorso alla nazione del 2007, in occasione di un anniversario degli attentati, arriverà a riformulare il concetto di “scontro di civiltà” parlando a sua volta di uno “sforzo per la civiltà”. Una visione, dunque, che partendo dagli stessi presupposti di Huntington si evolve fino ad abbracciare la teoria secondo cui sia compito dell’Occidente esportare i propri valori e fermare il terrorismo, la nascita della tirannia e imporre la forza della libertà. 

La “guerra al terrorismo” proclamata da Bush, così come l’utilizzo del termine “stati canaglia” per riferirsi ai paesi non graditi agli Usa, sono retaggi di un passato coloniale e del mito del “fardello dell’uomo bianco” che non fanno altro che celare, sotto a un sottile velo di fervore umanitario, le mire neo-imperiali della politica estera a stelle strisce degli ultimi decenni. La retorica adottata da Bush serve, per certi versi, a donare un’impalcatura ideologica alla volontà statunitense di colpire i responsabili degli attentati dell’11 settembre. Ma la narrazione portata avanti per oltre un decennio, e che aveva come scopo la legittimazione dell’intervento americano, non fa i conti con quella che è la storia dei paesi in cui si è deciso di “esportare la democrazia”.

A 20 anni dall’11 settembre il fallimento degli Stati Uniti è totale, e va dall’ambito tattico e strategico a quello ideologico. Mentre, come è ben noto, in Afghanistan era stato proprio il sostegno in funzione anti-sovietica ai mujaheddin a creare le basi per la successiva nascita dell’Emirato Islamico e la penetrazione di Al Qaeda, in Iraq la caduta di Saddam Hussein , che era a sua volta stato sostenuto nel corso degli anni ’80 nella guerra all’Iran, ha posto le basi per la nascita del sedicente Stato Islamico e ha aperto un varco alla Repubblica Islamica nel suo progetto di dare alla luce quella mezzaluna sciita che congiunge Teheran a Beirut passando per Baghdad e Damasco. 

A quasi 30 anni dalla sua pubblicazione, la tesi di Huntington sullo scontro di civiltà rischia di essere una profezia che si auto avvera più che una corretta analisi della realtà. Il fervore con cui l’amministrazione Bush parlava di “esportare la democrazia” ha contribuito a creare, per reazione, le condizioni per un’ulteriore polarizzazione delle posizioni e per un aumento della tensione. Gran parte dei regimi di stampo laico presenti nella regione mediorientale (Libia, Siria, Iraq) sono caduti o hanno subito attacchi in gran parte riconducibili a formazioni islamiste, e l’Europa ha vissuto sulla propria pelle le conseguenze dei fallimenti degli ultimi decenni. Mentre l’asse prioritario degli interessi geopolitici statunitense si è ormai spostato verso l’indo-pacifico, il mondo assiste attonito al ritiro delle truppe dall’Afghanistan. La narrazione voluta da gran parte dei media vuole ancora una volta che i soldati americani vengano dipinti come salvatori in fuga. Sono passati quasi 80 anni dalla fine del secondo conflitto mondiale, e l’inizio del 2021 è stato segnato dai moti di Capitol Hill che hanno sollevato ben più di una domanda sull’effettiva tenuta democratica degli Stati Uniti. Sarebbe ora, per l’Occidente, di fare i conti coi propri errori strategici e di misurarsi coi propri limiti strutturali. E la speranza è che, una volta per tutte, dallo scontro si possa passare al dialogo, allo scambio e al confronto.