Con “Donne Sportive”, The Pitch vuole aprire ed approfondire una finestra che da troppo tempo non viene illuminata. Lo sport femminile per decenni ha dovuto subire discriminazioni immotivate che hanno terribilmente limitato la crescita di questo ambito. Le differenze, come vedremo nei vari racconti, sono sempre state enormi andando a minare i sani valori che lo sport offre da secoli. Nonostante ciò, la figura della donna nel mondo sportivo ha regalato delle storie da brividi che proviamo umilmente a raccontare. La protagonista di oggi è Billie Jean King, una delle prime a credere seriamente nello sport femminile e ad avere il potere per fare qualcosa di concreto. Dalle 6 vittorie a Wimbledon a Philadelphia Freedom: la storia della tennista ribelle.
La storia di Billie Jean Moffit ha inizio in California, nella cittadina di Long Beach. Figlia di una famiglia conservatrice, lo sport è da sempre una questione di familiare, con il fratello Randy che è un giocatore professionista di baseball. Il tennis è lo sport regionale della ridente California e Billie Jean non può far altro che vivere nei campi pubblici della sua città. Fin da ragazzina sviluppa un talento mozzafiato, che le permette di farsi notare già in tenera età. Complice della fama è certamente la vittoria nel doppio femminile a Wimbledon, ad appena 17 anni ed al suo esordio assoluto sull’erba inglese. Di lì a poco diverrà una delle superfici più identificative per la sua carriera. Dove la panna e le fragole sono un must assoluto, Billie Jean King vince per ben 16 volte tra singolare e doppio.
Non è da meno anche negli altri Slam, con il nome scritto nove volte nell’albo dello US Open, due al Roland Garros ed una all’Australian Open. I titoli non sono così tanti solamente per il suo enorme talento, ma soprattutto per una mentalità vincente, paragonabile solo a quella dei grandi dello sport. Non a caso la sua frase più celebre è: «La vittoria è momentanea. Perdere è per sempre».
Lo sport, però, non è mai stato secondo alle battaglie sociali, anzi, ne divenne un mezzo più che efficace per promuovere le sue numerose campagne. E fa strano che i più la conoscano specialmente per il cognome dell’ex marito, Lawrence King, come da lei voluto. Con l’affermarsi dello sport come modalità di intrattenimento, gli sportivi iniziano a diventare persone veramente influenti nella società.
Assimilato il concetto, Billie Jean King sfrutta la sua visibilità per provare a cambiare il mondo. Peraltro, riuscendoci. Infatti, all’epoca, la figura della donna nello sport non era vista di buon grado, specialmente in un ambiente prettamente maschile come il tennis. Perciò le tutele economiche e le ricompense dei tornei avevano un dislivello abnorme. Perché un suo collega poteva pensare solamente allo sport finanziariamente parlando, mentre lei doveva fare l’istruttrice per racimolare qualcosa?
Con l’entrata del mondo del tennis nel professionismo, le battaglie della “ragazzina con gli occhiali” si fanno sempre più pressanti. Tramite dichiarazioni al veleno critica la USTA (United States Tennis Association) per la conformazione elitaria di questo sport ed i compensi irrisori destinati alle giocatrici. L’inizio della cosiddetta era Open avrebbe potuto rappresentare la svolta che si aspettava da tempo, ma che per l’ennesima volta si stava buttando via.
È servita Billie Jean a strigliare i grandi dello sport dopo la vittoria degli US Open: il vincitore maschile aveva preso 15mila euro in più ed a lei non andò giù. Così, dichiara «se il prossimo anno le cifre non saranno identiche, allora non giocherò». Magicamente, nel 1973 gli US Open divennero il primo torneo del Grande Slam ad offrire uguali vincite sia ai giocatori che alle giocatrici.
Ma la guerra è solo all’inizio: la più grande vittoria la conquista nella cosiddetta “Battaglia dei sessi”. Nota ai profani per il film e l’ottima interpretazione di Emma Stone, Billie Jean King e Bobby Riggs, ex numero uno del mondo nel primo dopo guerra, si sfidano in una partita d’esibizione che di spettacolare non ha proprio nulla. È solo una partita di tennis, ma ancor prima di essere giocata ha assunto un ruolo fondamentale di rivalsa femminile, non solo nel mondo sportivo. Sono oltre 30mila le persone allo stadio e circa 90 milioni quelli davanti alla televisione. Il tennista aveva affermato che anche un ultracinquantenne avrebbe battuto la più forte giocatrice al mondo.
Risultato? La King spazza via il collega in 3 set con un netto 6-4, 6-3, 6-3. Ed anche se solo per quella sera, le donne statunitensi poterono prevalere sul marito ubriacone.
La vittoria nella “Battaglia dei sessi” provoca numerosi straordinari effetti: Billie Jean crea il Virginia Slims, ovvero il primo torneo femminile professionistico, e pochi anni dopo diviene la prima presidentessa della WTA (Women’s Tennis Association). Ricopre un ruolo fondamentale anche nella nascita del WTA Tour, l’attuale linfa vitale del tennis femminile con tornei da ogni parte del mondo. Terminata la carriera, si siede sulla panchina della nazionale americana femminile di tennis (squadra di cui la King è la seconda miglior giocatrice per risultati), riuscendo a trascinarla alla vittoria di ben tre Fed Cup.
Non c’è stata solo la consapevolezza femminile nella vita sociale di Billie Jean King. Un’altra delle sue lotte, tra quelle maggiormente radicate nel tessuto mondiale, è quella a favore della comunità LGBTQ+ (al tempo pensare ad un nome per identificare ciò che difendeva era impensabile). Nel 1971 ebbe una relazione intima con una parrucchiera e lo rivelò al mondo qualche anno più tardi con una fierezza senza eguali, diventando così la prima sportiva statunitense a fare coming out e delineando una spaccatura fondamentale per la società odierna.
«Oh Philadelphia freedom, shine on me, I love you»: così recitava il suo grande amico Elton John in Philadelphia Freedom, la canzone dedicata proprio alla tennista americana. Ora quella libertà finalmente è stata conquistata quasi nella sua totalità, ed in parte è anche merito di Billie Jean King. Ci sarà mai un’altra atleta con la sua stessa importanza sociale? Qualcuno più grande di me disse «ai posteri l’ardua sentenza». Io mi limito a celebrare una delle figure più grandi di sempre, anche fuori dal campo.