Numerosi sono gli stereotipi che la storia e lo studio dei fatti storici hanno contribuito a creare e consolidare. Questo approccio generalizzante ha favorito lo svilupparsi, nella mente dello studioso, di schemi ripetitivi che semplificano lo studio del passato. Come pensavano, come agivano gli uomini e le donne nell’antichità? Quali i ruoli svolti nella società? Non sempre le risposte a tali domande riescono ad essere esaustive e si affidano a quegli stereotipi di genere che nei secoli hanno creato un immaginario spesso molto limitato e limitante dei ruoli svolti da uomini e donne nel passato. 

Interpretare i resti di una cultura materiale in effetti non è semplice. Richiede non solo grande conoscenza della materia esaminata, ma una certa predisposizione al confronto, all’osservazione e anche una punta di immaginazione (se così si può dire). L’archeologia è e rimane molto spesso una disciplina deduttiva, basata su dati di difficile lettura che hanno spesso favorito interpretazioni generalizzanti. Il primo passo “contro” un’archeologia puramente “materialista” venne mosso dai pensatori della c.d. archeologia postprocessuale.

Il postprocessualismo condusse la disciplina in direzione di una scienza sociale e fornì nuovi punti di vista con cui analizzare i fatti del passato. Credenze, usi e costumi di una popolazione, divennero elementi chiave con cui tradurre i resti archeologici. Nel compiere questo passo furono decisivi gli studi in ambito etno-antropologico, che aprirono l’uomo contemporaneo al confronto col “diverso”. La dimensione artistica venne indagata per la prima volta attraverso una lente estetica e non più solamente funzionale. L’uomo antico diventò artista, non solo artigiano. 

In questa cornice si colloca la Gender Archaeology (o archeologia di genere). Nata negli anni ’80 del secolo scorso, si inserisce all’interno del più vasto panorama rappresentato dal movimento femminista che portò le donne archeologhe a farsi più domande sulla storia e soprattutto sulla storia al femminile. Con gender archaeology tuttavia non si intende solamente archeologia femminile, ma indagine di genere in senso più ampio. Spesso i contesti funerari rappresentano un terreno fertile di ricerca, svelando i ruoli rivestiti dai membri delle società del passato.

Seguendo il picchio…

La cultura picena, meglio detta “cultura medio-adriatica”, si colloca tra le Marche e l’Abruzzo. Il popolo dei Piceni rappresenta un gruppo etnico omogeneo di lingua umbro-sabellica. Racconta Strabone (Geografia) che il popolo dei Piceni emigrò a seguito di un ver sacrum dalla Sabinia seguendo la guida di un picchioanimale totemico del popolo piceno. Il picus, sacro a Marte, avrebbe così condotto i primi capi verso una nuova terra, tra l’Umbria e la costa adriatica. Nonostante l’afflusso di artigianato greco-orientalizzante e i numerosi scambi commerciali, l’area adriatica rimase per secoli prerogativa delle genti indigene, conservando così un carattere marcatamente italico.

Donne picene. Parte 1

Per un’archeologia di genere, il caso marchigiano è interessante e getta luce sull’importanza sociale rivestita dalle donne dell’Italia antica, creando un importante confronto con l’area greca. Resti di cultura materiale si rinvengono in tutta la costa adriatica, tra le Marche e l’Abruzzo, e riguardano principalmente evidenze funerarie d’alto rango. A partire da resti di cultura villanoviana (tra X e VIII sec a.C.), i ricchi corredi piceni (riservati a una stretta élite di àristoi) mostrano influssi orientalizzanti tra VII e VI sec a.C.; mentre tra il V e il IV sec a.C. i beni di lusso sembrano meglio ridistribuiti all’interno di un’oligarchia gentilizia.

A tali contesti funerari appartengono ricchissime tombe femminili. I corredi delle donne picene ne sottolineano i ruoli di potere e prestigio. Ciò sorprende poiché si collocano all’interno di uno scenario sociale che nel mondo mediterraneo è spesso prerogativa dei soli uomini.

Il vino e le donne

Matelica si inserisce nella fascia sub appenninica delle Marche, quasi al confine con l’Umbria. Ad oggi si tratta di un piccolo borgo, ricco di storia e di cultura, la più antica risalente ai primi millenni a.C. Il museo archeologico, all’interno del Palazzo Finaguerra, mostra una ricca collezione di arte e artigianato piceno, sebbene il suo simbolo sia diventato il c.d. “globo di Matelica”: una sfera in marmo di età romana usata come orologio solare.

Dal punto di vista archeologico, la città ha conservato importanti evidenze funerarie. Queste sono circoscritte prevalentemente all’età del Ferro e al periodo orientalizzante. Si tratta di resti molto importanti poiché forniscono utili indicazioni per un’archeologia di genere e rappresentano una documentazione preziosa al fine di ricostruire il mondo dei vivi in età protostorica.

Accanto a sepolture appartenenti a un’élite guerriera, emergono delle curiosità. Tra queste una tomba femminile d’alto rango. Il corredo mostra oggetti legati al consumo di vino e alla cottura delle carni: attività amministrate spesso dai membri maschili della società. Eppure, in questo caso è la donna a usufruire degli oggetti del banchetto, ma non solo: svolge un ruolo centrale nella ridistribuzione del vino. Un’evidenza eccezionale che dimostra come, nell’area italica, le donne potessero non solo prendere parte ai banchetti, ma partecipare e amministrare i rituali legati al simposio e al consumo di vino, cosa quasi del tutto proibita nel mondo greco. Gli stessi usi e costumi accomunano le donne picene a quelle Etrusche e Laziali. Tant’è che agli occhi dei Greci questa “libertà” era additata e giudicata con disprezzo insieme lussuoso tenore di vita, per i Greci indice di “mollezza”.

Holmos (reggi-vasi) dalla tomba femminile 1 da Passo Gabella

Fuso, rocchetti e abiti di perline. Artigianato e moda tutta al femminile

E ancora le donne picene mostrano, all’interno dei corredi, i resti di abiti riccamente decorati, con fitte trame di perline e ricami preziosi. Se ne conserva un frammento dalla Necropoli Crocifisso (Matelica). La tessitura appare non a caso come la principale attività delle donne d’alto rango anche in ambito etrusco. Questa attività contraddistingue lo status della padrona di casa e si conserva nei secoli, tramandata di donna in donna per generazioni. Ancora oggi nelle Marche si pratica un tipo particolare di tessitura sviluppatosi nel Medioevo e che fa uso dei “liccetti” per creare raffinati ricami (Museo della Tessitura, Macerata).

Il santuario di Cupra marittima

La città di Cupra marittima deriva il suo nome da quello della maggiore divinità dei Piceni: Cupra. Forse di origine sabellica o etrusca, Strabone la identifica con Era, mentre l’appellativo Cubrar Mater la pone come equivalente della latina Bona Dea, divinità delle acque e della fertilità. Nei pressi di Cupra marittima sorgeva un importante santuario federale piceno dedicato alla Dea: polo di incontro e scambio tra le diverse etnie del centro Italia. Come Bona Dea, anche Cupra sembra associata alle acque e ai serpenti. Dal santuario proviene un ex voto bronzeo raffigurante infatti una mano avvolta da un serpente. È anche Dea della fertilità e l’associazione con le donne picene avviene tramite il ritrovamento di anelli “a nodi” in bronzo che venivano deposti nelle sepolture sul grembo delle defunte.

Anelli a nodi piceni

Il loro significato ideologico resta ancora quasi del tutto oscuro, ma se ne attestano numerosi rinvenimenti a Matelica e Novilara ed erano probabilmente e in parte associati alle capacità generative della donna. Altri siti importanti dedicati a Cupra sono collocati in Umbria, come quello di Colfiorito, mentre sono sporadiche le tracce nel resto d’Italia.

I resti di Cupra marittima visibili ad oggi conservano la memoria dell’insediamenti di età romana, con gli splendidi “Bagni di Nerone” (chiamati così in onore del padre del futuro imperatore). Mentre Adriano legherà il suo nome proprio al santuario di Cupra, finanziandone una ristrutturazione nel 127 d.C.

Busto di Venere di età romana da contrada Santi (forse Cupra?)

L’Archeologia di genere permette di mettere in campo dei punti di vista marginali, che tuttavia rivelano molto spesso delle curiosità inattese. Ed è questo il caso delle donne nell’Italia antica: non solo mogli e madri, ma vere e proprie donne di potere.