Una donna, la cui identità rimarrà taciuta, ha contattato The Pitch per raccontare la violenza di genere da una prospettiva interna. In particolare si parlerà di revenge porn, cioè la diffusione di immagini o video sessualmente espliciti, senza il consenso della persona ritratta, che in Italia è considerato un reato.
Spesso questo tema viene narrato come macrofenomeno. Le dinamiche generali e le statistiche sono importanti, ma si tende a non ascoltare le voci di chi l’ha effettivamente vissuto. Lasciamo invece la parola a chi ha scelto di raccontare questa esperienza, anche per rendere più consapevoli di cosa accade non solo il giorno dopo, ma tutti quelli a seguire.
Quando si parla di violenza sulle donne se ne parla da un punto di vista sociologico: rapporti di potere fra persone, maschilismo latente (e non solo), una cultura patriarcale che giustifica gli uomini e li autorizza ad essere violenti nei confronti delle donne. Non si parla mai, però, di ciò che succede dopo, delle vittime nel loro essere vittime. Non si parla mai di come una persona riesca ad alzarsi il giorno dopo e i mesi successivi. Si è parlato del #giornodopo. E quelli successivi? I mesi? Gli anni? Quando inizia una parte difficile della violenza: assimilarla, capirla, conviverci, accettarla.
Non ho mai pensato che sarei stata vittima di una violenza sessuale. E non avrei mai pensato che sarebbe stata causata da una persona di cui mi fidavo e con cui portavo avanti una relazione amorosa. Una relazione in cui pensavo ci fosse affetto.
La relazione in cui mi trovavo, che in superficie sembrava perfetta, o per lo meno normale, era fatta di gesti sminuenti quotidiani – piccoli, impercettibili – basata sul giusto dosaggio di sensi di colpa e piccoli ricatti emotivi, sulle bugie, a volte svelate, altre volte no. Una relazione basata sul fatto che fosse un brutto periodo, che sarebbe cambiato, che si scusava, che avrebbe fatto qualsiasi cosa per stare insieme a me. E poi la violenza.
Il gesto più infimo che una persona potrebbe fare: la mercificazione della persona amata e la mortificazione del corpo e dello spirito. Trattare la persona amata come carne da macello, materiale pornografico da mostrare a sconosciuti per nutrire il proprio ego e il proprio desiderio sessuale.
Ogni volta che sento parlare di revenge-porn, emergono le dinamiche di branco, il patriarcato, i costrutti socio-politico-culturali. Ma chi pensa alle vittime? Dove sono le persone destinate a passare un’infinità di giorni dopo a raccogliere i cocci?
Parliamo sempre d’altro quando l’argomento è la violenza, perché nessuno ha voglia di ascoltare chi l’ha subita, quanto stai male, quanto sei arrabbiata, frustrata. Le persone non capiscono che le stesse emozioni possono durare mesi, se non anni. Gli stessi pensieri si ripetono ogni giorno.
Ti svegli dopo aver fatto l’ennesimo sogno ricorrente. La giornata si svolge normalmente, ma sai che il tuo pensiero cerca sempre di rivolgersi in quella direzione. Tenti di pensare ad altro, ti riempi di cose da fare, eppure torni a casa la sera e pensi a quello che ti è successo.
È il giorno della marmotta, e tu ci sei dentro.
Sogni ricorrenti. Paura. Diffidenza. Paranoia. Dove stanno girando le mie foto? Su quale sito? E se non ho scoperto tutto quello che è successo? È una ferita che si rimargina, ma piano. Ti senti sempre un fiume in piena. Vuoi parlare a tutti costi ma hai finito gli amici a disposizione.
Paghi uno psicologo, una volta a settimana, con la speranza che tiri fuori dal cilindro una soluzione, ma soprattutto devi fare i conti con te stessa, la notte, di giorno, in macchina, per strada. Riaffiorano i ricordi. Riaffiora la rabbia, quel senso di ingiustizia, di impotenza e a volte anche di paura. E se dovesse succedere di nuovo?
Allora decidi di trovare un modo per superare il tutto, perché non basta parlarne con uno psicologo o con gli amici. Bisogna trovare una soluzione perché la ferita si rimargini, perché il dolore sia meno acuto. Per questo decidi di scrivere.
Non puoi parlare
Non posso parlare apertamente di ciò che mi è successo, non posso fare riferimenti espliciti né fare nomi. Posso però parlare di come mi sento. Sono passati anni, ma continua ad essere un chiodo fisso. Il dolore è meno acuto, ma è sempre lì. Riemergono lo spaesamento, l’ansia e la rabbia.
Sono stata per anni con una persona che mentiva compulsivamente. Da una parte era ossessivo con la sua gelosia, dall’altra utilizzava le mie foto, le mie immagini, la mia persona per adescare altre persone. Ero il suo gioco e non lo sapevo.
Subire una violenza è molto di più della violenza in sé. È quello che lascia addosso: diffidenza nei confronti degli altri, paura di voler mostrare le proprie fragilità, ricordi che affiorano di continuo quando meno te l’aspetti, incubi la notte, sogni ricorrenti.
Ho passato mesi a dire ai miei famigliari e ai miei amici: “Sto bene”. Non era così, ma io per prima non me ne rendevo conto. Non ero sincera con me stessa. Ho deciso di non denunciare perché non volevo rinunciare alla mia vita. Non volevo dare l’opportunità a quella persona di rubarmi ancora un secondo del mio tempo. Avevo dei sogni e volevo inseguire quelli. Ho preso questa decisione perché so a cosa sarei potuta andare incontro: altra violenza.
“Sei stata una vittima, non diventare anche una martire”. “Sei sicura di voler denunciare? Il processo penale è un tritacarne”. “L’esito è comunque incerto, non è detto che tu ottenga quello che vuoi”. “Adesso ti stanno tutti vicino, ma con il passare del tempo dovrai affrontare questo da sola”. Sono solo alcune delle frasi che mi sono sentita ripetere.
L’idea di essere smentita, umiliata, triturata in tribunale mi ha dissuasa dal denunciare. Un processo penale dura anni. La sola possibilità che la mia vita si fermasse per tutto quel tempo mi turbava. Vedevo questa vicenda definirmi per sempre. Non sarei più stata io, con i miei sogni, ma con l’attenzione e la vita rivolte verso il processo.
Non sono convinta della mia scelta, perché ancora oggi mi chiedo se sia stato giusto, se sia stato etico comportarsi così. Questa decisione mi permette di andare avanti con la mia vita, di curare le mie ferite in privato, con le persone che mi vogliono bene. Non devo confrontarmi con avvocati della controparte che farebbero di tutto per sminuirmi, screditare quello che è avvenuto e mettere in dubbio la veridicità della vicenda.
Eppure, per quanto abbia deciso di ritirarmi e non affrontare pubblicamente la vicenda, ogni giorno devo fare i conti con quello che è successo e con un forte e costante senso di ingiustizia. Non è giusto ciò che mi è successo, ma questo senso di ingiustizia è il prezzo da pagare per il mio equilibrio mentale, per riprendere in mano la mia vita.
Se hai subito episodi di violenza e hai bisogno di sostegno, puoi rivolgerti al Centro antiviolenza (CAV) più vicino a te o ai gruppi di auto-aiuto Suns. Se ti vuoi confrontare in uno spazio sicuro, puoi far riferimento al progetto I giorni dopo.