Giulia Bocciero e Davide Simonetti, entrambi classe 1993, sono un duo teatrale e una coppia nella vita. Si sono conosciuti a Torino nel 2017 (hanno studiato all’all’Atelier Teatro Fisico Philip Radice) e lì hanno fondato la compagnia Nouvelle Plague. Giulia è originaria di Fano, Davide invece è torinese. Ora vivono a San Costanzo, nelle Marche, in una splendida casa immersa nel verde, assieme ad altri artisti. Li ho intervistati verso la metà di Luglio.
Davide e Giulia, so che avete frequentato l’atelier di Teatro Fisico di Torino, ma come vi siete conosciuti davvero?
G: Avevo notato Davide perché per uno spettacolo che avevo scritto mi serviva un ragazzo che avesse un volto simile al suo.
D: Io invece non l’avevo notata… almeno non prima di essere ingaggiato; la sera che avrei potuto farlo, non portavo gli occhiali!
G: Iniziammo a collaborare come colleghi. Eravamo entrambi fidanzati, con una vita affettiva abbastanza intensa. Poi abbiamo iniziato a lavorare a un altro testo a proposito di due amanti che si rincontrano dopo trent’anni e ci siamo innamorati. Nel 2017 abbiamo fondato Nouvelle Plague, un gioco di parole che è un po’ un una presa in giro de La Nouvelle Vague e un po’ un omaggio alla Peste di Artaud, con l’idea di raccontare storie dimenticate e nascoste.
D: Siamo convinti che alcuni fantasmi del passato, e quindi molte storie che non si vogliono ricordare, abbiano in realtà parecchio da raccontare.
E quali sono queste storie che non si vogliono ricordare? Ne avete una da raccontare?
G: Certo. Abbiamo scritto un adattamento teatrale de La Semimbecille e altre Storie: un libro di una sociologa napoletana. L’autrice racconta di quando ricevette una particolarissima cartella clinica, dove era riportato un fatto molto cruento a proposito di una giovane donna che, alla fine del 1800, ammazza il suocero con un mattarello. Continuando la ricerca, l’autrice scopre che questa donna, residente a Sassocorvaro, in provincia di Pesaro e Urbino, veniva molestata dal suocero. Dopo l’omicidio venne ricoverata al San Benedetto, il manicomio di Pesaro.
Ma perché la chiamavano Semimbecille?
D: Così è stata definita dallo psichiatra, solo perché non sapeva né leggere né scrivere. Abbiamo deciso di raccontare questa storia per due motivi: primo, per approfondire il rapporto che intercorre fra follia e miseria. Secondo, perché è l’emblema perfetto di una mancata volontà di comunicare: i dottori, coloro che dovrebbero rappresentare la sapienza e la giustizia non fanno altro che appiccicarle addosso etichette e in fondo non ascoltano.
Dove fu rappresentata La Semimbecille la prima volta?
G: La prima volta venne rappresentata al Festival della Sociologia di Napoli nell’ottobre del 2017, ma venne creata presso il Caffè Basaglia.Scegliemmo il caffè Basaglia, centro culturale di reinserimento sociale di malati psichiatrici ed ex detenuti, nel cuore di Torino. Un locale molto underground, ma al primo piano!
D: Era in un capannone industriale del 1907 che ospitò la prima casa cinematografica d’Europa, l’Ambrosio Film. Chiuse negli anni ’20, divenne una fabbrica di materassi e poi il caffè Basaglia. Là ci concessero una residenza artistica permanente e ci chiesero di curare la programmazione per la stagione 2018-2019. Piano piano, visto gli avventori erano prevalentemente anziani, abbiamo creato una rassegna frequentata da un pubblico dai 18 ai 90 anni. Lo spazio ospitava anche molte realtà politicamente attive sul territorio ma non partiticamente schierate, come acqua bene comune o movimento no tav.
Abbiamo creato un cabaret per raccontare il Caffè Basaglia, un luogo importante della città, di cui pochissime persone conoscevano la storia. Abbiamo attivato un laboratorio per utenti psichiatrici ma anche per semplici avventori del caffè. A Gennaio abbiamo unito i gruppi, assieme agli operatori… e nessuno sapeva chi fosse chi! L’esperienza è stata molto soddisfacente per tutti noi. Ma poi il caffè Basaglia è crollato (l’infrastruttura era molto antica andava ristrutturata, ma a causa della pandemia i lavori non sono mai partiti e non ha retto). Allora abbiamo capito che dovevamo cambiare aria.
Come avete vissuto il periodo di lockdown?
Durante il primo lockdown eravamo a Sciolze, un paesino in mezzo al bosco a quaranta minuti da Torino. Ci eravamo trasferiti da poco… chiusi in casa, abbiamo deciso di aprire il podcast Radio Garofano.
L’ho ascoltato, davvero interessante! Avete intervistato Elena Bucci, Cathy Marchand, Daniela Nicolò dei Motus e altri personaggi del mondo culturale italiano, fra cui Monica Bravi, del CTU Urbino, il Centro Teatrale Universitario di Urbino.
G: Eravamo a Parigi, lavoravamo fra Francia e Svizzera per la creazione di uno spettacolo di una compagnia teatrale (Shlemil Théâtre). In autunno la tournée europea prevista è saltata a causa del secondo lockdown e i nostri datori di lavoro, pensando di andare in scena comunque con una cosa più piccola, per ridurre le spese hanno preferito licenziare i due attori più giovani. Così siamo rimasti senza casa e siamo fuggiti a Tavullia, rifugiandoci da amici, sempre in mezzo al verde, per rigenerarci, prima di scegliere di restare nelle Marche e venire a vivere qui a San Costanzo. Abbiamo ripreso i contatti con il centro teatrale di Urbino, che, dopo molti anni dalla mia assenza (ndr Giulia ha studiato lingue a Urbino) era davvero sbocciato. Condividiamo appieno l’impegno politico e poetico che il centro si pone come obbiettivo.
Con il CTU Giulia hai tenuto un “non-laboratorio di teatro in pezzi” sulle microespressioni facciali del viso.
G: Sì, ha fatto parte di un ciclo di moduli che il direttore artistico, Michele Pagliaroni, ha deciso di chiamare ‘laboratorio di non-teatro‘ perché si tenevano tutti online: doveva essere – e così è stato – non un’esperienza sostitutiva del teatro in presenza, ma un’attività sperimentale che potesse sfruttare l’ostacolo dell’assenza e renderlo motivo di gioco e studio, insomma, un’opportunità.
Mi sono lasciata ispirare da Beckett, autore a me caro, e con i partecipanti abbiamo creato tre video-performance: io, ion, non io. In particolare, nella fase non-io, abbiamo ‘messo on screen’ la frammentazione di tante bocche diverse, insieme, che si dividono il testo nelle lingue più svariate (dal francese all’albanese).
Ritorna la dinamica del pezzo, del frammento. Mi ricorda il cubismo del secolo scorso. Stiamo vivendo gli anni ’20… del novecento o del duemila?
D: Gli anni ’20 del duemila sono sotto certi aspetti molto simili agli anni ’20 del novecento, che fu un periodo di grande crisi (si colloca fra le due guerre) e di trasformazione (le tecnologie, il cinema, la radio). Oggi noi stiamo assistendo, assieme all’avanzamento tecnologico sempre più rapido, a un vero e proprio infrangersi del capitalismo, al crollo dei modelli di vita a cui ci eravamo abituati. Abbiamo voglia di star bene, ma dobbiamo decidere adesso cosa salvare, cosa buttare via. Sono pezzi, momenti di uno stile di vita globale che deve cambiare, nelle scelte di tutti i giorni.
Mi viene in mente il supermercato: cibo fratturato dentro scatole da imballaggio. Comprare fette biscottate implasticate e mangiarle ogni mattina non è più sostenibile.
Esatto. Noi cerchiamo di non andare quasi mai al supermercato. Siamo molto sensibili alla questione ambientale: non a caso ad agosto ci sarà una residenza artistica qui a San Costanzo chiamata Semis, Spectacle Européen de Mobilisation pour l’Indépendance des Semences, in collaborazione con Maison des Semences Paysannes Maralpines; debutterà in Francia a settembre con una tournée fra Provenza e Pirenei. Lo spettacolo è un manifesto teatrale per il libero scambio di semi. Le moderne coltivazioni infatti tendono a selezionare sempre gli stessi semi, ma standardizzando evitiamo l’evoluzione naturale e lasciamo morire la biodiversità.
Cercando di vendere sempre lo stesso prodotto, selezioniamo sì, ma sezioniamo anche: ci precludiamo la possibilità di una crescita naturale che avrebbe potuto apportare ricchezza, diversità, sapori nuovi. Questo nell’agricoltura come nell’arte.
In questo senso, mi viene spontaneo un collegamento: il laboratorio Teatro in pezzi si fondava sulla scomposizione fisica che è semplicemente la base del mimo. Ma si potrebbe parlare anche di un Teatro a pezzi. Questa pandemia ha sollevato tante tensioni che già ribollivano in ambiente teatrale. Noi, in qualità di liberi professionisti, contiamo di lavorare ancora facendo riferimento sulle nostre risorse creative.
Risorse che non mancano mai, a giudicare dalla vostra prolifica attività! Vi faccio un grande in bocca al lupo per la residenza teatrale Semis!