Dal film alla vera storia” è la rubrica mensile di The Pitch – Olympia, che svela retroscena, curiosità, personaggi, fatti reali che caratterizzano e differenziano le trasposizioni cinematografiche delle più belle storie dello sport mondiale. Un excursus tra realtà e fantasia, in cui la prosa del reale diventa poesia della finzione e su cui i maestri del cinema appongono la ciliegina finale. Chiudiamo la prima serie di questa rubrica con un altro gioiellino della cinematografia sportiva: “Race, il colore della vittoria“, è la storia di Jessie Owens, di Ludwig Long, delle Olimpiadi di Berlino 1936 e dei venti di guerra che già spiravano, prendendo la rincorsa.

Quella di Jesse Owens è la storia di uno degli atleti più grandi che abbiano mai partecipato alle Olimpiadi. Un uomo capace di fare cose, nell’atletica, impossibili per ogni altro sportivo, negli anni Trenta.

Ma è anche e soprattutto la storia di come questo meraviglioso atleta venga dimenticato, abbandonato, quasi disconosciuto e messo al bando dal suo Paese, dopo aver goduto della grandezza e della gloria delle sue medaglie d’oro.

Paradossalmente, è stato un eroe in Germania dove si aspettava che tutti lo odiassero, mentre è stato sepolto dall’indifferenza dei suoi connazionali, che avrebbero dovuto amarlo, una volta tornato negli Stati Uniti. Race – il colore della vittoria è il film che racconta la sua vita.

Race – Il Colore della Vittoria

Il film, diretto da Stephens Hopkins, è stato prodotto nel 2016 dalla Forecast Pictures in collaborazione con Solofilms e Trinity Race. Le riprese iniziarono nel 2014, con John Boyega protagonista.

Un anno dopo però quest’ultimo rompe il contratto per interpretare Finn in Star Wars – Il risveglio della forza. Così il ruolo di Jesse Owens passa a un esordiente, Stephan James, che se la cava egregiamente.

Non mancano comunque interpreti con un certo curriculum, come Jeremy Irons nel ruolo di Avery Brundage, Jason Sudeikis che interpreta coach Snyder, e William Hurt nei panni di Jeremiah Mahoney.

Trailer del film Race, il colore della vittoria

Non vi sono premi né riconoscimenti nella bacheca di questo film, che a mio parere, nonostante un cast di non grandissimo richiamo, è un prodotto molto ben confezionato e aderente alla realtà dei fatti, nello svolgimento. Una curiosità: nella versione italiana la voce del commentatore è di Federico Buffa.

La vita di Jesse Owens

James Cleveland Owens nasce il 12 settembre 1913. Nonostante la schiavitù di fatto sia stata abolita circa un centinaio di anni prima, a 6 anni deve aiutare la propria famiglia a sbarcare il lunario, lavorando con loro nei campi di cotone.

Owens la povertà ce l’ha scritta in faccia, quasi la indossa. Quando sorride ha un’espressione da sempliciotto e una dentatura ampia e irregolare che certo non lo aiuta ad avere un’aria da intellettuale.

E dopotutto un intellettuale non è: frequenta la scuola elementare con risultati non esaltanti, fatica persino a spiccicare qualche parola. Un giorno il suo insegnante, esasperato dai silenzi di quel bambino, quasi lo scongiura: «Dimmi almeno come ti chiami». Lui risponde con un soffio di fiato, biascicando «J.C. Owens». Il maestro capisce Jesse, così da quel giorno sarà per tutti Jesse Owens.

Se il rendimento scolastico del ragazzo è mediocre, quello del dopo scuola, quando ci si dedica prevalentemente alle attività motorie, è straordinario. Fa a gara a chi arriva prima, sfidando il vento e la luce.

Nel 1933 si mette in mostra ai campionati studenteschi e nonostante i suoi voti gli vengono offerte borse di studio da ben 30 diverse università americane. Lui sceglie la Columbus Ohio States per una ragione molto semplice: così gli è stato consigliato dal suo allenatore.

Coach Realy, che l’ha seguito negli anni della High School, ora deve passare il testimone e lo vuole cedere al migliore in circolazione: coach Larry Snyder, che insegna proprio all’università dell’Ohio. Jesse chiede e ottiene anche un lavoro per suo padre, così mentre lui pensa a studiare (poco) e allenarsi (molto), il genitore può pensare al sostentamento della famiglia.

Le corse universitarie

Il nome di Jesse Owens nei due anni seguenti si diffonde come un virus. Alle gare universitarie si presenta sempre più pubblico, vogliono tutti ammirare quel ragazzo imbattibile. Nel 1935 però sulla sua strada incontra un rivale temibilissimo: Eulace Peacock, dell’università del Nebaska.

Peacock batte Owens per ben due volte nel luglio di quell’anno e Jesse sembra accusare la pressione. Ma un mese dopo, la carriera di Peacock purtroppo termina repentinamente. I due si fronteggiano all’Arena di Milano, nella gara dei 100 metri piani, al termine dei quali Eulace si lesiona un tendine.

Non tornerà mai più a calcare una pista di atletica. La strada verso le Olimpiadi di Berlino a questo punto è in discesa per Jesse. Si dispiacerà molto dell’infortuno del rivale, che in seguito diventerà un suo grande amico.

Ora però bisogna fare un passo indietro di qualche mese. Perché il 25 maggio del 1935, quando Owens e Peaock sono ancora nel pieno della loro rivalità, il piccolo e scattante Jesse scrive una pagina di atletica che probabilmente resterà irripetibile, servendo a pubblico, giornalisti e soprattutto avversari un antipasto di ciò che accadrà in Germania, un anno più tardi.

La consacrazione di Jesse Owens

È il giorno della Big Ten Championship, una delle competizioni più prestigiose negli Usa, a livello universitario. Coach Snyder in realtà è sul punto di ritirare dalla gara il suo atleta, perché qualche giorno prima, mentre questi sta bighellonando con degli amici, cade e sbatte e violentemente la schiena.

Durante il riscaldamento Owens pare imbalsamato, è iscritto a ben quattro gare quel giorno, non si capisce come possa competere in quelle condizioni. Jesse però convince il suo allenatore a desistere: parteciperà almeno alla gara dei 100 metri, poi si vedrà.

Ore 15:15 finale dei 100 metri piani: Owens vince ed eguaglia il primato mondiale. Ore 15:35 finale del salto il lungo: Jesse non salta, vola a 8 metri e 13 centimetri disintegrando il record del mondo, che gli verrà soffiato soltanto 25 anni più tardi, nel 1960.

Per dare meglio l’idea di quanto quel salto per l’epoca fosse straordinario, basti pensare che alle Olimpiadi di Pechino del 2008, con quella misura, sarebbe ancora entrato nei primi 10 della classifica finale.

Ore 15:45 finale dei 200 metri piani, vittoria e record del mondo. Quarta replica alle 16:00, nei 200 metri ad ostacoli, vittoria e primato. Quattro record mondiali battuti in 45 minuti, in quattro discipline diverse. Molto difficile, se non impossibile, pensare che qualcuno possa ripetere una simile impresa.

Il problema olimpico

Un anno più tardi, il puzzo dei venti guerra si diffonde per tutta l’Europa e giunge fino al nuovo continente. Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti annunciano il boicottaggio delle Olimpiadi, ma alla fine partecipano.

Il presidente del Comitato Olimpico statunitense, Avery Brundage, uomo d’affari senza scrupoli nel campo dell’edilizia, instaura un rapporto singolare col ministro della propaganda nazista, Joseph Gobbels, deus ex machina della rassegna a cinque cerchi teutonica.

I due si detestano cordialmente, ma trovano il modo di scambiarsi alcuni favori prima, durante e dopo i Giochi. Brundage promette che si batterà affinché il suo Paese non rinunci alle Olimpiadi, in cambio chiede e ottiene di poter portare a Berlino atleti ebrei e di colore. Lo scambio di favori più meschino però se lo scambieranno, come vedremo, nel corso della manifestazione.

Owens, al contrario di quello che farà Muhammad Alì, non sfrutterà la sua posizione per occuparsi, seppure indirettamente, di politica. Probabilmente le sue umilissime origini non gli permettono di capire quanto avrebbe potuto fare per sé e per le altre persone di colore.

A Berlino va solo per gareggiare, non per portare avanti battaglie ideologiche. Questa sua ingenuità gli costerà la carriera e inciderà segnatamente sul proseguo della sua vita.

Jesse Owens sorprende Berlino

La sua sarà una marcia trionfale: il 3 agosto vince l’oro nei 100 metri piani, il 4 agosto vince nel salto in lungo, il 5 agosto trionfa nei 200 metri piani e infine il 9 agosto, fa parte della staffetta 4×100 che sale sul gradino più alto del podio. Quattro medaglie d’oro nel corso della stessa Olimpiade e due di queste saranno figlie di storie che meritano particolare attenzione, anche se molto diverse.

Dal film ufficiale delle Olimpiadi la clip con i quattro trionfi di Jessie Owens

Il 4 agosto è il giorno del salto in lungo. I due favoriti della vigilia sono il tedesco Ludwig Hermann Long, detto Luz, e naturalmente Jesse Owens. Long è il primatista, nonché campione europeo in carica, della specialità.

I nazionalsocialisti lo vorrebbero come manifesto vivente dell’uomo di razza ariana, perché incarna tutte le sue presunte peculiarità: è uno sportivo eccellente, alto, biondissimo, con la pelle bianca come il latte. Sembra perfetto.

Se non fosse che lui odia i nazisti e non intende sposare la loro causa. Nel corso della semifinale, insieme ad altri atleti Jesse e Luz si ritrovano per la prima volta uno di fronte all’altro.

Un duello che diventa storia

Long ottiene facilmente la misura che gli spalanca le porte della finale. Jesse, invece, è sorprendentemente un passo dal baratro: reduce da due salti nulli, ha solo un ultimo tentativo per qualificarsi.

Long sa che senza l’americano la sua vittoria non avrebbe valore. Si narra quindi che prenda un asciugamano dalla sua borsa e lo sistemi in terra come punto di riferimento, in modo che Owens veda esattamente dove spiccare il salto.

Altri diranno che semplicemente i due si avvicinarono, parlottarono e grazie a qualche consiglio Jesse riuscirà a qualificarsi all’ultimo salto. La prima versione è certamente più affascinante, comunque ciò che conta è che la finale vedrà entrambi in pedana.

Dal film ufficiale delle Olimpiadi la sintesi la clip della sfida tra Long e Owens nella finale del salto in lungo

E daranno vita a una sfida esaltante: Luz salta 7.77 metri, Owens lo sopravanza di 7 centimetri. Al secondo tentativo Long va a 7.87 metri, Jesse risponde con 7.94 metri. L’ultimo salto del tedesco è un nullo, Owens è oro. Per onorare il rivale, esegue anche il terzo balzo, andando a soli 7 centimetri dal record mondiale. Allo stadio Olimpico è apoteosi per entrambi.

Una staffetta agrodolce

La seconda storia ha invece un retrogusto molto amaro. Il 9 agosto è il giorno della finale della staffetta 4×100. Jesse non dovrebbe essere al via, ha vinto tre ori e vuole fare il tifo per i suoi compagni.

C’è un problema però, per Herr Gobbels: la staffetta made in Usa è composta da 2 ebrei e 2 neri. Sono i favoriti, tutti sanno che vinceranno. Così, convoca Brundage, in qualità di capo delegazione della squadra a stelle e strisce, esortandolo a non far gareggiare i 2 giudei, in nome della loro presente e futura collaborazione.

Brundage incredibilmente esegue, l’oro andrà comunque al collo degli americani, tra i quattro staffettisti viene inserito Owens, che correrà la prima frazione e conquisterà così il suo quarto alloro.

Anche in questo caso c’è una seconda versione dei fatti. All’epoca nessun atleta aveva ancora vinto quattro medaglie d’oro nella stessa Olimpiade, così anche se non era previsto che partecipasse alla staffetta, Jesse venne inserito all’ultimo istante per consentirgli di raggiungere questo record.

È la versione che preferiremmo, ma il fatto che due ragazzi ebrei vengano esclusi proprio alla vigilia della gara, alle Olimpiadi di Berlino, nel 1936, sono indizi che costituiscono molto più che una prova.

La carriera di Jesse Owens in pratica termina lì. Dopo le Olimpiadi diventa professionista, la federazione statunitense lo manda in giro per tutta Europa. Lui però è esausto e vuole tornare a casa.

Il campione reietto

Al meeting di Oslo non si presenta, prende la nave e sbarca a New York, dove lo aspetta sua moglie. Brundage non tollera l’affronto e lo squalifica a vita. Non correrà mai più. Il Presidente Roosvelt dice di essere preso dalla campagna elettorale e non lo riceve alla Casa Bianca.

Solo nel 1988 sarà invitato al Campidoglio: verrà insignito della Medaglia del Congresso, apponendo così una pezza su una mortale ingiustizia. Una volta sbarcato nella Grande Mela, Jesse suppone che gli hotel faranno a gara per ospitarlo, ma solo all’ottavo tentativo, all’Hotel Pennsylvania, accetteranno di dargli una camera. Il colore della pelle non ha medaglie di nessun tipo, da quelle parti.

Jessie Owens e Ludwig “luz” Long mentre parlano allo stadio Olimpico di Berlino

Luz Long morirà nel 1943 nel corso della Seconda Guerra Mondiale, in Sicilia, dove è tuttora sepolto. Il finale di questa storia è davvero amaro, ma proviamo a renderlo se non lieto, almeno accettabile, addolcendolo un pochino con una curiosità.

Coach Snyder commissiona prima delle Olimpiadi delle scarpe in pelle di canguro per Jesse. Queste però evidentemente vanno perse, perché al villaggio olimpico non verranno mai recapitate.

Così Snyder chiede a un giovane, ma abile, calzolaio tedesco di realizzare in fretta e furia le calzature da gara per il suo atleta: il nome di questo artigiano è Adolf Dassler, per gli amici Adi. La sua piccola impresa diventerà l’impero Adidas.