Di pari passo all’acuirsi del dibattito sulla parità di genere, l’espressione “vittimizzazione secondaria” (o victim blaming) – l’ulteriore violenza che le vittime subiscono da parte delle istituzioni e dei media – è diventata propria del gergo giornalistico, riguardo episodi di cronaca sulla violenza sessuale. Tuttavia definizione, circoscrizione e funzionalità del termine “vittimizzazione” si possono far risalire a ben prima: nel 1947 per la prima volta uno studio del criminologo Benjamin Mendelsohn pose l’attenzione sul ruolo della vittima e la necessaria partecipazione della stessa all’interno del procedimento penale, dando origine alla scienza empirica della vittimologia.
Di fatti, fino a metà del secolo scorso, il fulcro dell’interesse dello studio criminologico era l’autore del reato. Solo di recente si può dire che il modello penale si stia ricalibrando verso la figura della vittima – definita la “grande dimentica della giustizia” – dopo esser stato a lungo rivolto alla figura del reo rispetto alla sua individuazione, condanna e riabilitazione e rieducazione (si ricordi l’art. 111 della Costituzione sul giusto processo regolato dalla legge) rivelando una falla interna nella mancata considerazione delle esigenze di ascolto della persona offesa.
Per destreggiarci nella complessità del discorso, è bene partire dall’etimo della parola “vittima”. Di origini latine (da victima, vìctuma, forse derivante da victùs, offerta di cibo agli dei, o da vìncire legare) indicava i soggetti – persone o animali – sacrificati alle divinità per garantirne la benevolenza sui cittadini. In letteratura, la vittima per antonomasia è Ifigenia che, nella tragedia di Euripide Ifigenia in Aulide, viene fatta chiamare dal padre Agamennone con l’inganno per poi essere sacrificata ad Artemide, affinché la flotta degli Achei potesse viaggiare propiziamente verso Troia. L’ambivalenza del sentimento di Ifigenia che dallo sgomento approda all’eroismo – suscitato dalla “causa maggiore” per cui si sta sacrificando – costituirà il retaggio culturale su cui si fonda il pregiudizio nei confronti delle vittime, fino ai tempi odierni.
Altro concetto da spiegare è quello di “vulnerabilità”. Sono molti i riferimenti normativi alla “vittima vulnerabile” come soggetto predisposto alla vittimizzazione secondaria, i più importanti consistono nella Decisione quadro del 15 marzo 2011 relativa alla posizione della vittima nel processo penale, nell’art 2 del Protocollo delle Nazioni Unite alla convenzione di Palermo contro il crimine organizzato e transazionale del 2002 e la Sentenza Pupino della Corte di Giustizia delle Comunità Europee.
Questa definizione trova un doppio baricentro oggettivo e soggettivo: il primo relativo alla tipologia di reato, il secondo riferito alle caratteristiche personali della vittima come lo stato psicologico ed emotivo di cui la difesa potrebbe profittare.
La vittimizzazione secondaria è un fenomeno che inficia l’aspetto procedurale e processuale, ma protende anche diramazioni sociali e culturali importanti per le quali oltre ai pregiudizi derivanti dal reato subito (cd. vittimizzazione primaria), la vittima, o persona offesa dal reato, ne subisce ulteriori, secondari.
Dal punto di vista giuridico, questo deriva dalla riedizione del ricordo che la vittima sarà costretta a compiere, dalla neutralizzazione della persona offesa, nonché dal ricoprire una posizione sostanzialmente passiva (nonostante al Titolo VI del codice di procedura penale “Persona offesa dal reato” l’art. 90 ne preveda diritti e facoltà). Inoltre va considerato il comportamento spesso ostile e dubbioso degli operatori del procedimento .
Dal punto di vista sociale e divulgativo, un ruolo preminente assumono i media che, producendo una narrazione romanticizzata della violenza, contribuiscono a responsabilizzare la vittima su cui involontariamente sarà proiettato il sentimento di millantante eroicità di Ifigenia (a questo proposito è consigliabile un libro di Louise Pennington)
Per quanto ancora lacunoso, dal lato giuridico (qui solo sommariamente riportato) si prospettano soluzioni istituzionalizzate – incentivate da un eminente panorama normativo internazionale e comunitario tra cui spiccano la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne del 1979 (CEDAW), la Direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, il Trattato di Lisbona e la Convenzione di Istanbul del 2001 – di cui troviamo esempio lampante nella Decisione Quadro del 15 marzo 2001 in tema di “posizione della vittima durante il procedimento penale”, la quale all’art. 14 prevede la formazione professionale delle persone che intervengono nel procedimento o che entrano in contatto con le vittime (nonostante questa sia ad oggi disattesa dall’Italia).
Più arduo sembra invece il raggiungimento di un obiettivo culturale e sociologico di destrutturazione del pregiudizio nei confronti della vittima. Per quanto tecnicamente riferenti a sfere di competenza diverse, le due soluzioni non vanno lette in modo dicotomico, ma funzionale.
Non è un caso che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nella sentenza J.L. c. Italia dello scorso 27 Maggio abbia condannato lo stato italiano per non aver tutelato i diritti e gli interessi della ricorrente (vittima di stupro) ai sensi dell’art.8 CEDU, posto a tutela il diritto al rispetto della vita privata e familiare, ritenendo arbitrari e ingiustificati i commenti sulla vita sessuale della ricorrente, sul suo abbigliamento ma, soprattutto, rilevando che le argomentazioni e il linguaggio della Corte di Appello di Firenze siano frutto di un substrato culturale retrogrado e patriarcale che non permette un’effettiva e concreta tutela della vittima, nonostante un quadro legislativo teoricamente sufficiente.
Una soluzione pratica che si può prospettare e che costituirebbe un rivoluzionario mutamento, si potrebbe ottenere dalla compenetrazione di più settori- penalistico, sociologico e psicologico- in termini di progettualità, stanziando fondi adeguati per rendere i centri antiviolenza competenti, formati ed efficienti.
Allo stato dell’arte quindi, ci si trova in una situazione dove pare che le tutele normative e procedurali siano passi avanti rispetto alla sensibilità (prima ancora della comprensione) della comunità. I cambiamenti culturali richiedono, per loro natura, un lungo processo di elaborazione di una nuova prospettiva comune tramite una persistente ed efficace divulgazione.
Se auspichiamo un cambiamento permeante e duraturo, una divulgazione intersezionale e inclusiva, scevra di paternalismi o elitarismi, sembra essere quella più efficace. Auspicare la metamorfosi sociale rispetto a un tema che fonda le sue più profonde radici nel patriarcato, così com’è stato conosciuto per secoli erga omnes, non sarebbe solo contraddittorio, inefficace e deludente ma anche ridicolo.