Il mese del Pride 2021 è ormai cominciato, e se ne sentiva più che mai il bisogno. L’ultimo anno e mezzo ci ha privati, tra le tante cose, anche della possibilità di far partire l’onda Pride e può sembrare poco ma dopo un solo anno ci ritroviamo ad assistere a uno dei più eclatanti casi di ostruzionismo parlamentare degli ultimi tempi, con la destra disposta a vedere cara la pelle e la dignità pur di non far passare il DDL Zan, e con comici in prima serata che difendono il diritto di dire ‘froc*o’, perché «l’offesa sta nelle intenzioni, non nelle parole».
Episodi come questi, cui se ne aggiungono molti altri, più nascosti nel profondo sottobosco d’intolleranza che è l’Italia, rendono le battaglie del Pride più che mai necessarie, ed è importante anche ribadire, anno dopo anno, di cosa parliamo quando parliamo di Pride. Perché c’è il rischio, cavalcato da una narrazione sbagliata e dannosa, che si pensi che il Pride abbia a che fare con l’amore romantico.
Il 1 giugno scalava la classifica delle tendenze di Twitter l’hashtag #loveislove. Per anni si è perpetuata su televisioni, giornali, approfondimenti, film e serie tv l’idea che omosessual*, bisessual*, transessual*, non binar*, queer, sfilassero per rivendicare il “diritto di amare”. Il che è raccontare solo una parte della storia, peraltro minoritaria. Per dirla in parole semplici, non è avere un fidanzato il principale problema della comunità Lgbtqi+. L’irresistibile richiamo pubblicitario dell’amore romantico ha trasformato il Pride in una sorta di San Valentino queer, quando il centro di quella che è ancora una battaglia è la rivendicazione della propria libertà, della propria identità e del possesso completo e totale che le persone hanno, o dovrebbero avere, dei propri corpi.
La comunità Lgbtqi+ è, per l’appunto, una comunità. Racchiude anime e istanze diversissime e anche distanti tra loro, accomunate da una bandiera e dalla discriminazione violenta che i suoi membri hanno subito nel corso dei secoli. Ma la vita di un uomo bianco gay è sicuramente molto diversa da quella, ad esempio, di una donna nera trans. Diversi sono i problemi, diverse le violenze subite. Il trait d’union che unisce due realtà che hanno così poco in comune non è sicuramente la difesa dell’amore romantico. Il problema principale di una donna trans italiana, il motivo per cui scende in piazza per sfilare, è che il suo status non è universalmente riconosciuto, è che le è praticamente impossibile trovare un lavoro senza scendere a compromessi con la propria identità. L’amore, qui, c’entra ben poco. Parliamo di diritti umani e la retorica da Baci Perugina rischia di annacquare una lotta anche molto violenta, in cui in gioco ci sono le vite delle persone.
In questi stessi giorni, mentre le multinazionali dipingono i loro loghi con i colori dell’arcobaleno, la casa di accoglienza per persone Lgbtqi+ del Gay Center di Roma rischia di chiudere. In questa struttura sono accolte persone cacciate di casa, picchiate dalla famiglia, violentate, abusate. Sono giovanissim* e le loro vite hanno subito un trauma inaccettabile nel 2021. Ed è solo una delle innumerevoli realtà di disagio e violenza quotidiana che le persone Lgbtqi+ devono subire ogni giorno. Per loro e per tutt*, bisogna tornare a chiamare il Pride per ciò che è: non una celebrazione dell’amore romantico, ma una rivolta. “First Pride was a Riot” in fondo e dovrebbe ancora essere così.
Ciò che si ha difficoltà a riconoscere è che, sempre perché è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo, le istanze del Pride sono state in gran parte inglobate in un discorso di marketing. Il Pride e la Rainbow Flag sono diventati loghi e come tali richiamano sponsor. L’orgoglio diventa business e il business annega i diritti: perché per poter vendere, la realtà va edulcorata e nulla vende meglio dell’amore. Se a questo uniamo un fastidio profondo che la società occidentale in generale e italiana in particolare ha per le persone single, per chi non è coinvolto in nessuna storia romantica, allora vediamo come simbolo del Pride diventa una coppia di ragazzi che si baciano e non più, come era e come sarebbe dovuto rimanere, una donna nera trans che lancia i suoi tacchi alla polizia. La rivolta ha il sapore del disordine e il disordine non piace a nessuno. Nel disordine non si guadagna nulla.
Questa consapevolezza è fortunatamente cresciuta negli ultimi anni. Si parla sempre con maggiore frequenza di “rainbow washing”, la tendenza del marketing a fare proprie le istanze del Pride per vendere di più. Ma se nel primo giorno del mese del Pride l’hashtag più condiviso è #loveislove, allora è evidente come parte di questa retorica sia stata interiorizzata. E questo accade perché, come sempre, anche all’interno della comunità esistono gerarchie ben definite. E in cima alla piramide, senza nessuna sorpresa, si trovano gli uomini. Gay, certo, ma sempre uomini, spesso bianchi, spesso ricchi. E chi il Pride lo ha ideato, chi in quella famosa notte a Stonewall ha per primo spezzato le catene è passato in secondo, in terzo, in ultimo piano, fino a quasi scomparire e con loro sono scomparse quelle rivendicazioni, quelle libertà che ancora oggi devono lottare per essere riconosciute.
“Ma perché bisogna ostentare?”. “Io al Pride non ci vado perché è un circo”. “Non mi sento rappresentato da chi va in giro mezzo nudo” .
Se siete parte della comunità Lgbtqi+, specie se siete uomini, c’è una buona possibilità che queste frasi le abbiate sentite o che le abbiate pronunciate. Si è tentato, per decenni, di rendere gli omosessuali “accettabili” per la società eteropatriarcale, arginando quell’umanità variopinta che è il cuore stesso del Pride. Dall’arcobaleno, insomma, si è passati al monocolore, al bianco, alla normalizzazione. E si ha difficoltà a capire, per citare un testo – parecchio criticato – di Willy Peyote, “in che modo twerkare vuol dire lottare contro il patriarcato”.
È sparito il corpo, insomma, il corpo politico, il corpo libero, il corpo che scandalizza e fa paura. Il corpo che si spoglia per mostrarsi, per affermare la propria esistenza. Il corpo delle femministe di ogni ondata che hanno bruciato le costrizioni, i corpi delle persone trans, i corpi non conformi che meritano dignità, libertà, riconoscimento. Sono quei corpi che devono tornare al centro della scena. Sono quei corpi a dover essere rispettati e riconosciuti. #Loveislove è uno slogan che riduce il problema delle persone Lgbtqi+ al “poter prendersi per mano per strada”. Cosa pericolosa in Italia, come dimostrano i fatti di Palermo, ma è solo la punta dell’iceberg.
Da questo slogan sono esclusi tutt* coloro che ogni giorno, prima di uscire di casa e camminare per strada, sanno che cammineranno in un mondo ostile. Sono esclus* le donne e gli uomini trans che non possono lavorare perché i loro corpi non sono conformi alla norma. Sono eclus* le persone asessuali e aromantiche. Sono esclus* i sex worker, i migranti Lgbtqi+, i genitori single. Insomma, per paradosso l’amore che ci rende più accettabili agli occhi degli etero-cisgender diventa uno strumento per dividerci.
Il Pride è diritto a essere liberi, non diritto ad essere innamorati. Finché questa distinzione non sarà chiara prima di tutto a noi stessi membri della comunità, non renderemo giustizia a chi, per amore di quella libertà, ha anche pagato con la vita, oggi come ieri.