Ci si può disinnamorare di uno showrunner?
Forse sì, se si tratta di qualcuno di cui seguiamo il lavoro da oltre vent’anni. Qualcuno che, nel bene e nel male, ha lasciato il segno nella cultura pop, e nel gusto e nell’immaginario di una generazione.
Qualcuno come Joss Whedon.
Per me, il suo nome è legato in modo indissolubile a una pietra miliare della tv pomeridiana adolescenziale: Buffy l’Ammazzavampiri. In un panorama desolante di soap per ragazzi, Buffy svettava con il suo miscuglio di generi: horror e teen drama, commedia e azione, fusi insieme in quaranta minuti di battute esilaranti, schiaffoni tra creature della notte e storie d’amore epiche. Era irresistibile perché non aveva paura di giocare col registro narrativo e per l’originalità della protagonista: Buffy Summers (Sarah Michelle Gellar), di giorno liceale, di notte cacciatrice di vampiri.
Con Buffy, Whedon ci ha riservato il trattamento della rana nell’acqua bollente. L’umorismo, il focus sull’amicizia, il messaggio di speranza iniziale, nel corso delle stagioni sprofondano nell’oscurità e nel pessimismo. Anziché per vera motivazione, Buffy inizia a opporsi agli ostacoli che incontra per pura rassegnazione.
L’approccio “edgy” di Whedon toglie ogni allegria alla storia e alla sua eroina. Chi si era innamorato di Buffy per le avventure sopra le righe e il carisma della protagonista, viene gettato a tradimento in un mondo in cui una donna non può davvero essere eroica senza perdere per strada ogni emozione positiva.
Ci sono tracce di questa “filosofia” anche nella parte che il regista ha avuto nel plasmare il Marvel Cinematic Universe. Tracce evidenti nello sfortunato personaggio di Vedova Nera, interpretata da Scarlett Johansson. Tutti i supereroi hanno una tragic backstory, un trauma passato che li sprona. Ma guarda caso, a portarsi appresso il bagaglio più ingombrante, del tipo che compromette ogni possibilità di lieto fine, è l’unica donna nella formazione originale dei Vendicatori. La cosa era quasi impercettibile nel primo film, The Avengers. Ma già con Age of Ultron ecco che Vedova Nera, oltre a essere coinvolta in un flirt così inconcludente da non aver lasciato traccia nei sequel, si convince di essere “un mostro” perché soggetta a sterilizzazione forzata durante i suoi anni in Russia. E si sa, per una donna la sterilità è peggio che avere a proprio carico una conta dei morti a tre cifre.
Quella fu la fine del periodo whedoniano in casa Marvel.
Ma l’estetica della donna martire, del sorriso velato di tristezza, dell’eroismo suicida è rimasta nell’opera di Whedon e si è svelata in tutta la sua gloria (si fa per dire) nella recentissima serie The Nevers, prodotta da HBO. Qui la protagonista non ha neanche un briciolo della spensieratezza iniziale di Buffy. Amalia (Laura Donnelly) parte già dura, distante, totalmente priva di autoconservazione e tendente a gettarsi nella mischia in biancheria intima – per quanto vittoriana e dunque coprente.
Whedon ha abbandonato The Nevers a metà produzione. Perché la polvere sotto il tappeto prima o poi viene fuori e, negli anni, lo showrunner è stato travolto da vari scandali. Dalla serie Angel al blockbuster Justice League, sempre più attori e attrici si sono fatti avanti a denunciare il comportamento abusante di Whedon. Secondo le testimonianze, si sarebbe costruito un’immagine di femminista grazie alle sue eroine action, salvo poi comportarsi in modo violento sul set, creando ambienti lavoratici tossici in cui le interpreti venivano caricate di aspettative pesantissime e trattate come lavoratrici di serie B.
Si fa presto a dire che bisogna distinguere l’opera dal suo creatore. Anch’io, per molto tempo, ho considerato Whedon lo showrunner ideale. Ma gli scandali gettano lunghe ombre su tutto quanto c’è di buono nella sua filmografia, e una volta che si comincia a dubitare del suo modus operandi, è impossibile non vedere le sue opere con occhi diversi. Viene da chiedersi quanto, della malinconia delle attrici che ha diretto, fosse recitato, e quanto invece fosse dovuto a un trattamento scorretto nei confronti loro e dei loro alter ego fittizi.
Il mondo non è più quello di 20 anni fa, e le eroine tragiche di Whedon non hanno più un posto nel nostro immaginario. O forse siamo noi a essere cresciuti, a cercare cose diverse nelle nostre serie preferite. Da adolescenti potevamo appassionarci alle torture che Buffy subiva in ogni puntata, senza accorgerci che erano il sintomo di un modo di pensare per cui l’eroismo delle donne va punito senza pietà.
Adesso, però, pretendiamo qualcosa di più. Non il lieto fine a tutti i costi, cosa che non ci aspetteremmo per nessun personaggio, uomo o donna che sia. Ciò che cerchiamo nella finzione è un messaggio di speranza, un piccolo promemoria che i traumi e la violenza non sono tratti del carattere ma qualcosa che si può sconfiggere, o perlomeno affrontare a testa alta. E possibilmente, che le storie che guardiamo non siano scritte da qualcuno che si professa femminista ma si crogiola nella sofferenza delle donne. È chiedere troppo?