Rassegnati è la rubrica settimanale che seleziona un fatto degli ultimi giorni per provare a mostrare com’è stato riportato dalla stampa italiana. Tra strategie comunicative ed errori, viene svelato il filtro che copre ogni notizia. Oggi parliamo della scomparsa di Saman Abbas.
Saman Abbas è una giovane ragazza di 18 anni di origini pakistane scomparsa ormai più di un mese fa. In precedenza si era opposta a un matrimonio forzato, impostole dalla famiglia, e si era rifugiata in una struttura di assistenza gestita dai servizi sociali. Dopo essersi recata nella casa dei genitori per ricevere i suoi documenti, però, non ne ha fatto più ritorno. Le indagini indicano che probabilmente i responsabili della sua morte sono proprio alcuni membri della famiglia. Da ciò che è emerso fino ad ora, potrebbero averla a uccisa e sepolta a Novellara, un comune a nord di Reggio Emilia.
La vicenda, in origine, è stata poco trattata dai giornali ma in un secondo momento, con il procedere delle indagini, le testate italiane hanno iniziato a dedicarle più spazio e a riportare l’iter delle scoperte. Con che tono è stata comunicata la notizia? A quali dettagli viene data maggiore attenzione? Per comprenderlo ho selezionato gli articoli che riportano una delle ultime novità: sono sotto indagine lo zio (Danish Hasnain) e i due cugini (Nomanulhaq Nomanulahq e Ikram Ijaz) di Abbas.
Il Corriere della Sera sceglie come titolo: «Saman Abbas “uccisa da tre persone, lo zio Danish e i due cugini”». Inserisce così un virgolettato significativo, perché esprime l’opinione comune di chi sta indagando sul caso senza però dimenticare che il processo è in corso e la sentenza non è ancora definitiva. I fatti essenziali, inoltre, vengono raccontati in breve ma con enfasi, a partire dalla scelta del ricorrente participio “ammazzata” riferito ad Abbas, che viene citata spesso utilizzando solo il nome proprio. L’avanzamento nelle indagini è reso possibile da alcune dichiarazioni del fratello di Abbas, che ha iniziato a collaborare solo in un secondo momento perché, sostiene la testata attraverso le parole della pm Laura Galli che coordina l’inchiesta, c’è voluto del tempo per «prendere le distanze dal contesto e dalla cultura in cui è vissuto fino a ora». Non viene però precisato di quale contesto culturale però si stia parlando, lasciando il pubblico libero di trarre le proprie conclusioni.
Il Post riporta in modo dettagliato i verbali delle indagini, citando anche la fonte primaria. Vengono descritti il video della sorveglianza, la deposizione del fratello di Abbas e l’interrogatorio del fidanzato. Si danno inoltre delle informazioni che contestualizzano la sparizione della giovane e l’ambiente familiare in cui viveva fino a poco prima della sparizione: «Secondo alcune persone che conoscevano la famiglia, la ragazza non usciva quasi mai di casa e i genitori le impedivano anche di andare a scuola. Lo scorso dicembre si era opposta al tentativo dei genitori di organizzare un matrimonio combinato con un suo cugino in Pakistan e per questo aveva denunciato i genitori alla polizia».
La testata non approfondisce completamente il contesto ma gli dedica uno spazio notevole, considerando anche che si tratta di un articolo di cronaca. La strategia comunicativa mira non a colpire la sfera emotiva di chi legge, ma a offrire più informazioni possibili. Si lascia meno spazio alle notizie già acquisite da chi legge e si sceglie invece di esplicitare anche le informazioni basilari della vicenda.
Anche Il Fatto Quotidiano inserisce nel titolo un virgolettato, che intende mettere in luce l’atrocità dell’avvenimento in oggetto: «“Abbiamo fatto un lavoro fatto bene”: il messaggio dello zio di Saman Abbas». Già nel primo paragrafo è presente inoltre un’affermazione importante sul retroscena culturale alla base della probabile morte della giovane. Si sostiene che Abbas abbia scritto al fidanzato che la madre «indicava l’uccisione come unica “soluzione” per una donna che non si attiene alle regole di vita pachistane». In questo caso la testata sceglie di riformulare con parole proprie lo scambio tra i due, non citando direttamente le parole della giovane.
Una delle prove fondamentali per l’indagine sul caso è un filmato di videosorveglianza che mostra la famiglia al completo uscire di casa e poi ritornare, ma questa seconda volta senza la ragazza. Le sequenze vengono descritte nei dettagli dal quotidiano. L’articolo si chiude con un interrogativo che resta senza risposta e che contiene in sé una delle forti problematicità di questo avvenimento: «Resta aperta anche la domanda sul perché – e soprattutto se poteva essere fermata – Saman l’11 aprile sia tornata a casa, interrompendo il programma di protezione in una comunità del bolognese dove era stata collocata dopo aver denunciato i genitori per le nozze forzate».
Infine Sky TG24 avvalora le ipotesi per cui i responsabili della morte di Abbas siano alcuni membri della famiglia, scrivendo che è «ritenuta dal Gip “piena prova indiziaria” della responsabilità dello zio nell’omicidio, e “particolarmente credibile”». Dopo di che approfondisce le emozioni di alcuni protagonisti della vicenda, come il padre di Abbas che «si è sentito male e ha iniziato a piangere, stava quasi per svenire per mia sorella». Anche in questo caso i contenuti dei video fondamentali per le indagini sono descritti con precisione, accompagnandoli da alcune immagini tratte da essi. L’articolo si chiude esprimendo le preoccupazioni e le perplessità relative al corpo di Abbas e al suo mancato ritrovamento.
In conclusione in questi articoli si notano due tendenze nella comunicazione della notizia: da un lato si punta sull’emotività e dall’altro sui dati e le informazioni certe per ora disponibili. Naturalmente entrambe le strategie hanno dei lati negativi. Nel primo caso si rischia di enfatizzare troppo alcuni aspetti della vicenda, anche quelli difficilmente comprovabili (come la reazione emotiva del padre di Abbas), mentre nel secondo di rendere il testo poco chiaro e poco leggibile.
Per questa specifica notizia, inoltre, si nota una difficoltà ad approfondire il contesto in cui la scomparsa di Saman Abbas si è verificata. In alcuni casi si accenna velatamente a un sistema culturale che ne è responsabile, ma quale? Nei media italiani si è discusso del ruolo che l’Islam, la religione della famiglia di Abbas, ha avuto in questa vicenda. In molti casi la questione è stata semplificata indicando la religione islamica come la principale responsabile dei fatti. Sostenere però che Abbas sia morta perché la famiglia è musulmana e pakistana etnicizza la questione e condanna una religione, non un sistema culturale che genera comportamenti dannosi soprattutto per le donne.
Lo spiegano bene le parole di Sumaya Abdel Qader, sociologa e consigliera del comune di Milano, a #cartabianca: «L’Islam condanna e non accetta in nessun modo né matrimoni combinati né, a maggior ragione, forzati. Il problema qual è? Che l’Islam è diffuso in una parte del mondo molto ampia e incontra nella sua diffusione sistemi patriarcali, maschilisti e misogini, che insieme vanno a creare delle strutture che, ahimè, in alcune situazioni rendono le donne ai margini, discriminano le donne e le mettono in condizioni di assoluta sottomissione».
E in aggiunta le famiglie e le comunità musulmane che migrano in Paesi come l’Italia trovano contesti altrettanti patriarcali e non aperti a percorsi di inserimento nel tessuto sociale. È l’insieme di tutti questi fattori a favorire il mantenimento delle stesse strutture che hanno portato alla scomparsa di Saman Abbas.