Carlo Levi, torinese, è morto nel 1975 ed è sepolto, secondo le sue precise indicazioni, ad Aliano, un piccolo comune nel cuore della Basilicata. È il paesello, che sotto mentite spoglie costituisce l’ambientazione del suo testo più celebre: Cristo si è fermato a Eboli. Perché un attaccamento così radicale alla Lucania? E come viene raccontata questa zona d’Italia allora dimenticata?
La trama e i riferimenti autobiografici
Il romanzo di Levi narra un’esperienza che si situa a metà tra la realtà e la finzione. L’autore viene arrestato nel 1935 per antifascismo e condannato al confino in Lucania. Lo scopo del regime era sradicare gli intellettuali sgraditi collocandoli in luoghi estranei e remoti. Di conseguenza Levi viene mandato prima a Grassano e poi ad Aliano, un paese dell’entroterra lucano di dimensioni ancora minori. La condanna è di tre anni, ma dopo 8 mesi si interrompe, perché per celebrare la campagna d’Africa vengono liberati tutti gli esuli. Cristo si è fermato a Eboli narra quindi le vicende avvenute durante il confino. Il protagonista è Levi stesso, ma all’autobiografia si accompagnano degli elementi finzionali.
Quando l’autore arriva in Lucania quale scenario trova? Una civiltà contadina molto antica, famiglie che condividono lo spazio con gli animali e che ogni giorno percorrono dei chilometri per raggiungere i campi. Era una delle zone più degradate d’Italia, abbandonata a se stessa dal governo locale e nazionale. Questa regione diventa la rappresentazione del Sud del mondo.
La canonizzazione e la situazione editoriale
Cristo si è fermato a Eboli è oggi considerato un classico della letteratura novecentesca e in particolare del neorealismo, la corrente artistica che si afferma nel dopoguerra. Levi scrive questo romanzo nel 1941, nascosto a Firenze per sfuggire alle persecuzioni (era di famiglia ebraica) e lo pubblica nel 1945. Ha avuto quindi alcuni anni per ripensare all’esperienza del confino e trasformarla in un’opera globale.
Inizialmente il testo viene pubblicato nella collana dei Saggi di Einaudi, perché letto come un testo politico e storico, una discussione della cosiddetta questione meridionale. Solo negli anni ’70 viene spostato in una collana dedicata esclusivamente alla narrativa (Nuovi Coralli). Da quel momento in poi viene presentato e canonizzato come un romanzo. Questa situazione editoriale complessa è dovuta all’articolazione e alla stratificazione della stessa narrazione leviana, non riconducibile unicamente alla definizione “romanzo”. Il Cristo è anche un racconto memoriale (memoir), un saggio sociologico, documentaristico e un resoconto di viaggio. Ha una natura mista, ambigua e poco canonica.
È un documento con funzione didascalica quando riporta fedelmente alcune tradizioni locali. In aggiunta però ha una componente sociologica, antropologica e politica, perché elabora una proposta sintetica finale di federalismo. Inoltre il punto di partenza è la sua esperienza personale di esule ed è quindi una storia di impegno personale e la sua universalizzazione. Si tratta anche del viaggio di un torinese al Sud: un itinerario non scelto liberamente, ma subito e imposto. Questo percorso ha in aggiunta un valore antropologico: comporta la scoperta del diverso, di ciò che è totalmente estraneo rispetto alla società piemontese in cui Levi viveva. Infine il Cristo non può che contenere anche la dimensione romanzesca. Non a caso, vista la sua complessità, l’autore lo chiamava semplicemente libro, un termine capace di comprendere tutte le sue sfumature.
L’ambientazione lucana
La Lucania è presente fin dal titolo, per quanto possa apparire opaco. Levi riprende infatti un modo di dire locale: Noi non siamo cristiani. Eboli in realtà si trova al di fuori del territorio lucano, nella provincia di Salerno, quindi più a nord rispetto ad Aliano e Grassano. Nel parlato comune “cristiano” indicava un individuo comune, ma nell’accezione leviana “Cristo” passa a rappresentare la Storia, che – stando alla visione dell’autore – non è mai giunta nell’entroterra della Basilicata. Questa regione viene così presentata fin dall’inizio come un luogo al di fuori del tempo e dello spazio.
Lo spazio del confino è per sua definizione limitato, reso angusto da una costrizione. Non permette l’esplorazione geografica ma solo quella socio-antropologica. Levi attraversa quindi lo spazio per indagare il mondo dei contadini e la loro dimensione atavica. Grassano e Aliano sono i due borghi in cui l’autore ha trascorso il confino. Nella narrazione si sovrappongono con il nome finzionale di Gagliano, scandagliato fino al limite dei i calanchi.
L’ambientazione lucana è allo stesso tempo astratta e concreta. Da una parte è la negazione dello spazio, una dimensione fatta per perdersi, per smarrire le coordinate dell’orientamento in uno spazio dominabile. In questo senso diventa una metafora dell’esistenza. Dall’altra, però, è uno scenario realistico. De Martino ha visitato la Lucania basandosi sul Cristo e lo stesso fece Friedman. Alcuni tratti vengono descritti in modo estremamente dettagliato (sono presenti ben 66 toponimi, la maggior parte dei quali relativi alla provincia di Matera).
In quest’area geografica che sembra fuori dal tempo e dallo spazio sono molti i personaggi che si muovono. Quelli lucani si spostano solo all’interno della regione, senza mai lasciarla. I personaggi che provengono dal resto dell’Italia, invece, ne percorrono l’entroterra e poi se ne allontanano definitivamente. Uno di essi naturalmente è il protagonista stesso. Eppure anche chi si dilegua resta in qualche modo legato a questo spazio immobile ma mai del tutto fermo, che sembra non cambiare e che invece porta con se un moto perpetuo.
È la stessa sorte che è toccata a Carlo Levi. Terminato il suo confino ha promesso alla comunità di Aliano, che ormai l’aveva accolto, che sarebbe tornato presto. Vi farà ritorno solo nel 1960, più di vent’anni dopo, e definitivamente una volta deceduto. Le sue volontà, infatti, richiedevano di seppellirlo proprio ad Aliano, un luogo che per lui è rimasto familiare e fonte di richiamo costante. Non a caso Levi è stato spesso definito “un torinese del Sud”.