Con la serie sul pugile argentino Carlos Monzon Netflix ha spostato non di poco l’asse narrativo dalle sue ambizioni, facendo centro in un palinsesto altalenante. Usciva in un momento nel quale, neanche a dirlo, la piattaforma faceva piazza pulita nel settore, circa un paio d’ anni fa. Ora gli equilibri tra media e pay tv sembrano essersi in parte ristabiliti. Il fatto è che, sceneggiatura o non sceneggiatura, Argentina o non Argentina, in questa serie così imperdibile e così lontana dal tedio – perché la forza narrativa del soggetto che si dipana è la stessa del peso medio sul ring – quello che manca più di ogni altra cosa è una verticalizzazione sul mondo pugilistico che è raccontato, si, ma con una trasversalità quasi solo orizzontale, certamente pregna di quella cultura pop e popolare alla quale la boxe stessa appartiene per definizione del Novecento.
Non esiste infatti Novecento senza pugilato, e questo va ricordato anche se la boxe non è, lontanamente da come viene considerata da chi non l’ha mai vissuta o praticata, soltanto la panacea di un passatismo maschile e maschilista. O perlomeno non è solo questo. È semmai figlia del suo tempo come lo sono le manifestazioni di quel secolo, nel quale insieme al calcio e al ciclismo non era uno sport come tanti, ma semmai un appuntamento fisso per milioni di europei, italiani inclusi.
Non c’è spoiler in questa serie che segue un iter storico sul caso di cronaca più famoso del Sud America degli anni ‘80 che consumò in una notte di San Valentino una tragedia mai dimenticata dalla storia. E qui sta la forza del racconto, che eccede però nei particolari morbosi di questo caso, che è il vero protagonista più del pugile stesso. Non è infatti questa una serie su Monzon in quanto tale, che pure viene accompagnato con precisione nelle sue tappe biografiche, ma su quello specifico caso di cronaca, cioè sul decesso di Alicia Muñiz. Non mancano, comunque, riferimenti e ricostruzioni audaci di alcuni suoi incontri.
Paradossalmente, il personaggio di contorno definito con maggiore gusto è Nicolino Locche, argentino anch’egli e che per questioni di peso con Monzon non ha mai combattuto, ribattezzato “El intocable” per la sua capacità indicibile di schivare i colpi. Ma è narrato con gusto avvincente anche l’insperato incontro con Nino Benvenuti, che all’epoca fu una sorpresa strabiliante per tutti perché Monzon, nell’arrivare a quell’incontro, non era conosciuto nel panorama internazionale; il triestino intuì che se non aveva avuto lui la lucidità, l’esperienza e il talento per batterlo, in pochi sarebbero riusciti.
Così fu: anzi nessuno; ed egualmente fioccano per cinefili e nostalgici i ricordi nella ricostruzione, breve ma significativa, della sua amicizia con Alain Delon, che tra l’altro gli organizzò l’incontro con Napoles, personaggio che nella serie non appare. Si rievoca anche la fisiognomica dell’argentino, un uomo capace di portare il suo volto sullo schermo, di configurarsi come “macho” latino tanto da poter essere paragonato a un divo del cinema e i suoi altalenanti stati umorali.
Nemmeno al colombiano e rapido Valdez riuscì l’impresa di batterlo, l’unico capace di metterlo a terra nel secondo incontro, una rivincita che Monzon non lasciò all’avversario e che nella serie diventa episodio-perno di una risalita disattesa, che in realtà sancisce la fine di un mito, il suo colpo di coda, l’ultimo atto di una commedia che diverrà tragedia di lì a poco.
A far da traino in questa serie notturna e un po’ ombrosa che nasce, cresce e muore su un caso di omicidio, stanno i protagonisti maschili: l’avvocato di Monzon, tale De Luca, un personaggio disilluso e tipicamente figlio del XX secolo, e l’ispettore di polizia, archetipo forse di un modello maschile più “moderno”, già proiettato per certi versi nella figura del Duemila, ma egualmente virile. La forza della serie sta anche nella sua concisione, nel volersi consumare con impeto e ragionevolezza in una sola stagione, seppur nutrita di un numero considerevole di puntate (13).