L’attenzione verso la tutela dell’ambiente è più alta che mai, ma gli accordi internazionali rischiano di restare delle mere dichiarazioni di buone intenzioni. Forse una pronuncia di un giudice internazionale potrebbe funzionare da utile deterrente, soprattutto considerando che troppo spesso i crimini contro l’ambiente sono realizzati con la compiacenza di chi governa. Purtroppo, a livello internazionale non esiste un dovere generalizzato di non inquinare e la strada per una sua affermazione è tutta in salita.
Ci è voluta la Corte Europea dei diritti dell’uomo con l’ormai nota sentenza Torreggiani per farci svuotare un po’ le carceri. I detenuti erano troppi, lo spazio troppo poco, ma non era un mistero. La giurisprudenza internazionale ha il potere di illuminare come un faro le vergogne di Paesi ritenuti civili, innescando spesso cambiamenti che i governi nazionali da soli non sono in grado di fare. Ci obbliga a lavare certi panni sporchi che eravamo abituati a non vedere, pur di non sfigurare dinanzi agli altri, perché la reputazione, lo sta capendo anche la Cina, alla fine conta anche nei rapporti commerciali.
Nel caso delle condizioni disumane dei detenuti, si sa, la circostanza interessava poco l’opinione pubblica. Migliorare la qualità della vita in carcere è un argomento impopolare, finché qualche corte internazionale non ci punta il dito contro (e anche lì, le riforme che ne sono conseguite sono passate in sordina fra i non addetti ai lavori). Per quanto concerne la tutela ambientale non serve certo un giudice internazionale per smuovere gli animi. L’opinione pubblica è ormai sufficientemente sensibilizzata. L’emergenza climatica è ormai al centro del dibattito politico internazionale e nazionale. Eppure, malgrado l’attenzione sia alta, perseguire e realizzare una tutela efficace dell’ambiente si è dimostrato un obiettivo non facile da raggiungere. Questo perché la tutela dell’ambiente, è noto, entra spesso in conflitto con lo sviluppo economico, il diritto al lavoro di molti e l’arricchimento dei soliti pochi noti. Inoltre, spesso sono i governi stessi che consentono o addirittura incoraggiano uno sfruttamento irrazionale delle risorse, e la repressione di simili comportamenti nei tribunali nazionali è ardua (i recenti sviluppi del caso ex Ilva sono emblematici in tal senso).
La tutela ambientale a livello nazionale..
Ad oggi norme che tutelano l’ambiente sono previste sia a livello nazionale che internazionale. A livello interno, quasi tutti i paesi “sviluppati” prevedono delle regolamentazioni particolarmente articolate. In generale, lo schema seguito è quello di imporre a chi ha intenzione di intraprendere un’attività considerata ad impatto ambientale di ottenere un’autorizzazione ad hoc, e adottare una serie di precauzioni. Le conseguenze per chi viola le normative non possono che essere di carattere economico e (se possibile) ripristinatorio. I casi più gravi, inoltre, spesso hanno una rilevanza penale. In Italia, ad esempio, i reati ambientali sono stati ampliati. Nel 2015 è stato inserito nel codice penale il titolo VI-bis, intitolato “Dei delitti contro l’ambiente”. Tra i nuovi reati vi sono le fattispecie di inquinamento e disastro ambientale, punibili sia a titolo di dolo, cioè se commessi con l’intenzione, sia a titolo di colpa, ossia quando l’evento è stato causato non intenzionalmente, ma con negligenza, imprudenza o imperizia o violando delle normative di cautela.
In generale, la creazione di un nuovo reato è consentita dal fatto che il legislatore rileva l’esistenza di un interesse meritevole di tutela penale. La riforma del 2015 è stata quindi consentita da una nuova consapevolezza circa l’importanza dei beni ambientali. Oggi, a livello giuridico, la tutela dell’ambiente è inscindibilmente legata al diritto a vivere in un ambiente salubre, corollario del diritto alla salute. Una simile declinazione del diritto alla salute è ormai consolidata nella giurisprudenza costituzionale nazionale ed è confermata da atti di rilevanza internazionale, quali la Dichiarazione Universale dei diritti umani. Per comprendere la velocità con la quale una simile percorso maturi, basta pensare al fatto che la Suprema Corte di Cassazione riconosceva il diritto all’ambiente salubre, quale diritto soggettivo e inviolabile, in quanto parte integrante del diritto alla salute nel 1979 (sent. 6/10/1979 n. 5172).
Fino al 2001 la Costituzione italiana non conteneva la parola ambiente.
..e internazionale
I danni ambientali, tuttavia, hanno una dimensione inevitabilmente transnazionale, implicando pregiudizi per l’intera umanità. Per quanto riguarda il diritto internazionale, possono venire in mente numerose convenzioni. Tuttavia, tutto il diritto internazionale scritto, o meglio pattizio, vincola solo le parti che lo sottoscrivono, seguendo dei meccanismi del tutto analoghi a quelli dei contratti fra privati. Le uniche norme che si ritiene valgano per tutti in modo inderogabile sono le norme di ius cogens, norme non scritte che impongono un nocciolo duro di regole. Le norme di ius cogens sono tali in quanto gli stati dimostrano con i loro comportamenti di ritenerle esistenti e inderogabili e vengono di volta in volta individuate dalle Corti internazionali. Per quanto riguarda la tutela ambientale, l’unica norma cogente individuata dalle Corti attiene ai rapporti di vicinato. Già nel 1941 veniva rilevato che ogni stato ha l’obbligo di evitare che il suo territorio venga utilizzato in modo tale da arrecare danno al territorio di altri stati (caso Fonderia di Trail 1941).
A una tutela più capillare dell’ambiente a livello internazionale si può forse giungere da una strada leggermente diversa. Fra le norme cogenti non scritte, si ritiene vi siano anche i cd. principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili che impongono la protezione di un nucleo fondamentale e irrinunciabile di diritti umani. Detti principi vietano le gross violations, categoria sotto la quale si è soliti riportare le pratiche di governo particolarmente irrispettose della dignità umana come la tortura e i trattamenti disumani e degradanti. Rientrano sicuramente nelle gross violations i crimini internazionali.
L’ecocidio sarà fra i crimini di competenza della Corte Penale Internazionale?
La categoria dei crimini internazionali è in realtà molto succinta. Si può dire che risalga alla fine della Seconda Guerra Mondiale, se si eccettua qualche precedente, quali la pirateria e i crimini di guerra. Il Processo di Norimberga rappresenta, infatti, il primo caso di giurisdizione penale internazionale. Fu istituito con l’Accordo di Londra del 1945 che ha emancipato la categoria dei crimini contro l’umanità distinguendoli dai crimini di guerra. Oggi, sulla scia del suddetto Accordo, lo Statuto di Roma, che istituì nel 1988 la Corte Penale Internazionale, prevede quattro tipi di crimini: il genocidio, i crimini contro l’umanità, i crimini di guerra e i crimini di aggressione.
Un movimento ambientalista, l’Ecocide Law, fondato dall’avvocato scozzese Polly Higgins, lotta da anni per l’inclusione dell’ecocidio fra i crimini di competenza della Corte Penale Internazionale. L’ecocidio viene definito come la decimazione degli ecosistemi, dell’umanità e della vita, condotta che non pare difficile da ricondurre alle gross violations. In realtà, durante i lavori preparatori dello Statuto di Roma non mancarono proposte di allargare l’elenco di crimini, includendovi l’ecocidio. Le proposte furono tuttavia rigettate dotto la spinta in particolare di Regno Unito, Francia e Paesi Bassi.
Il caso Bolsonaro
Da qualche anno, la tematica dell’inclusione dell’ecocidio sembra tornata alla ribalta. Nel 2016 la Corte Penale Internazionale ha annunciato che avrebbe dato priorità anche ai crimini che portano alla “distruzione dell’ambiente”, allo “sfruttamento delle risorse naturali” e all’”espropriazione illegale” della terra. Il casus belli, potrebbe essere costituito dalla messa sotto accusa dell’attuale presidente del Brasile, Jair Bolsonaro. Il 22 Gennaio 2021, infatti, è stata presentata alla Corte una richiesta ufficiale per indagare le condotte del capo di stato brasiliano. La richiesta è stata presentata dall’avvocato per i diritti umani, William Bourdon, per conto della popolazione indigena della foresta amazzonica. Tuttavia, è bene specificarlo, nella denuncia Bolsonaro non è formalmente accusato di ecocidio. È lecito ipotizzare che il crimine potrebbe essere inserito nello statuto a seguito delle indagini potendo così operare per future condotte illecite.
Le accuse al presidente brasiliano probabilmente verranno considerate dalla Corte in quanto crimini contro l’umanità. Secondo l’art.7 dello Statuto sono da considerarsi tali l’omicidio, la riduzione in schiavitù, la deportazione o il trasferimento forzato di popolazioni, e in generale atti disumani capaci di causare sofferenze gravi di carattere fisico o psichico, purché perpetrati come parte di un esteso o sistematico attacco diretto contro una popolazione civile. Tra le condotte indicate nella richiesta di indagini vi è infatti l’uccisione di leader indigeni e attivisti ambientali, nonché il trasferimento forzato delle tribù, causato dalla massiccia deforestazione.
Bolsonaro, infatti, già durante la campagna elettorale aveva manifestato vigorosamente la sua intenzione di aprire la Foresta ad uno sfruttamento senza limiti e il suo razzismo nei confronti delle tribù indigene. Appena salito al potere, ha mantenuto le sue promesse elettorali. Fra i suoi primi atti c’è stato infatti il trasferimento della competenza sulla gestione della Foresta dall’Agenzia Governativa per gli Affari Indigeni al Ministero dell’Agricoltura. Le sue politiche hanno favorito le attività di agricoltura estensiva ed estrazione mineraria e creato un clima di impunità rispetto ai crimini ambientali, portando la deforestazione dell’Amazzonia al suo picco massimo. Non solo. Com’è noto il presidente ha a lungo negato la gravità della crisi pandemica, incoraggiando la popolazione a non indossare dispositivi di protezione e a tenere aperte le attività commerciali. Ha poi rifiutato ripetutamente le offerte di vaccino da parte delle cause farmaceutiche. Oggi il Brasile concentra più di un quarto dei morti e dei casi giornalieri di Covid-19 a livello globale e buona parte di questi si concentrano nelle tribù amazzoniche che hanno subito un’autentica strage. Dietro i crimini denunciati sembrerebbe nascondersi un ecocidio in piena regola, ossia la decimazione degli ecosistemi, dell’umanità e della vita, la cui carica lesiva è tale da consentire l’inquadramento in altre ipotesi di crimini internazionali.
L’obbligo di non inquinare non è ius cogens (per ora)
Nonostante le dichiarazioni di organismi internazionali e della maggioranza dei Paesi del mondo vadano nel senso di voler dare priorità alla tutela dell’ambiente, la strada che porterà a delle condanne internazionali per ecocidio ex se è lunga e irta di ostacoli. La libertà di sfruttamento delle risorse naturali del territorio costituisce, infatti, uno dei contenuti più importanti della sovranità territoriale. Il principio n. 21 della Dichiarazione di Stoccolma 1972 adottata dalla conferenza di stati sull’ambiente umano, ripreso al n.2 della dichiarazione di Rio 1992 afferma che “gli stati hanno diritto sovrano di sfruttare le loro risorse naturali conformemente alla loro politica sull’ambiente e hanno l’obbligo di assicurarsi che le attività esercitate entro i limiti della loro sovranità e sotto il loro controllo non causino danni all’ambiente in altri stati”.
Secondo la Corte Internazionale di Giustizia (l’organo giurisdizionale dell’ONU) l’obbligo di non inquinare discende da un corpo di regole del diritto internazionale dell’ambiente. Tuttavia, le sentenze delle Corti Internazionali per ora possono solo far riferimento ad accordi e non ai principi generali. Affinché si consolidi una regola di ius cogens manca una prassi, ossia delle condotte tenute dagli Stati tali da far emergere l’esistenza di detta regola. In diritto, una norma è tale quando prevede un obbligo e una sanzione consegue alla violazione di tale obbligo. Non bastano dunque dichiarazioni di impegno al rispetto dell’ambiente o di diminuzione delle emissioni che sia. L’assenza di una prassi, denunciata dalle Corti, è causata dal fatto che gli stati (soprattutto quelli “sviluppati”) siano restii ad ammettere la loro responsabilità in caso di danni. Quando concedono un indennizzo, come nel caso dei danni causati dagli esperimenti nucleari statunitensi nell’atollo Bikini, non mancano di sottolinearne il carattere grazioso e non doveroso. Ad oggi si può pertanto affermare che esiste un principio emergente ma che necessita della prassi ovvero dell’appoggio degli stati per consolidarsi.