É di pochi giorni fa la notizia del rapimento di Giovanni C., ingegnere italiano di 74 anni prelevato dalla Gang Mawozo durante dei lavori che stava effettuando nella zona di Croix-des-Bouquets, comune a ovest della capitale, Port-au-Prince. Questa notizia non fa più scalpore tra la popolazione haitiana e la comunità internazionale presente nel paese, ormai abituate ma costantemente attonite di fronte ad un fenomeno tristemente ricorrente, intensificatosi nel 2020. Il centro Haitiano di analisi e ricerca dei diritti umani parla di 142 rapimenti nei soli primi tre mesi del 2021. Bambini, donne, haitiani e stranieri, nessuno ne è esente.
É sera a Port au Prince. Un venerdì di maggio del 2021. Le strade della capitale deserte, buie, l’elettricità scarseggia, l’illuminazione pubblica un’utopia, ristoranti e bar vuoti, chiusi o falliti. Restrizioni Covid? No, paura dei rapimenti. La gente non esce più, i ristoranti chiudono per mancanza di clienti, sono ormai due anni che il paese è in crisi.
Haiti, tristemente conosciuto negli ultimi anni come “il paese più povero del mondo occidentale” avanza tristemente in una crisi umanitaria complessa. Le origini dei bisogni delle persone sono radicate nelle vulnerabilità storiche del paese (ex colonia francese ridotta in schiavitù e a lungo allontanata dagli altri paesi per essere stata la prima “indipendenza nera della storia”) e guidate dall’instabilità economica e politica, nonché dall’impatto ricorrente dei rischi meteorologici. L’ultimo decennio è stato caratterizzato da diverse catastrofi naturali, terremoti e uragani, e dall’instabilità socio-politica sotto forma di proteste diffuse per la povertà, la corruzione del governo e la mancanza di servizi, alimentate da una grave recessione economica iniziata nel 2018. La violenza e l’insicurezza si sono solo amplificate da allora.
“Lavi chè” e “aba koripsyon, enjistis sosyal, ensekirite”, in creolo haitiano “la vita è cara” e “abbasso la corruzione, l’ingiustizia sociale, l’insicurezza” sono solo alcuni dei motti che la popolazione locale, stremata e lasciata senza alcun servizio di base, reclama ormai da due anni occupando e bloccando le strade delle città del paese.
“Ci svegliamo la mattina e non sappiamo se torneremo a casa la sera”, dice Joseph, medico di un ospedale che serve uno dei quartieri più marginalizzati e bisognosi della capitale. Chiaro simbolo della precarietà della vita degli haitiani è la parola “domani”, che in creolo non esiste. Si dice: “domani se Dio vuole”.
I rapimenti sono soltanto la punta di un enorme iceberg e il frutto della disperazione per molti, che trovano in questo disperato gesto un modo per guadagnare soldi.
La maggioranza della popolazione non ha facile accesso all’elettricità, all’acqua, ai servizi igienici o all’assistenza sanitaria. Quasi metà della popolazione (più di 4 milioni) ha bisogno di assistenza alimentare e due bambini su dieci non frequentano la scuola primaria, il livello di alfabetizzazione della popolazione sopra i 10 anni è del 61%.
E il governo dov’è? Il governo di Jovenel Moise, “l’uomo banana”, così soprannominato in quanto ex businessman nel commercio delle banane, resta in silenzio. Eletto nel 2017, in quattro anni ha cambiato 6 diversi primi ministri e dal 2019 governa per decreto. Dopo le accuse ricevute nel 2018 di “mala gestione” dei 2 miliardi di dollari destinati a programmi sociali ricevuti tramite il programma “PetroCaribe” e “spariti” dalle casse del suo e dai precedenti governi, iniziano le proteste di massa, culminate con il “peyi lock”, un periodo di guerriglia civile e violente proteste durato 2 mesi che ha lasciato il paese in ginocchio, agonizzante. La richiesta della popolazione è semplice: le dimissioni di un presidente ormai considerato illegittimo. Il 2020, caratterizzato da una prima ondata di Covid che sembra però magicamente risparmiare il paese, vede il progressivo affermarsi e svilupparsi di gangs armate, impunite, che diventano le vere istituzioni in numerosi quartieri della capitale e città di provincia. Chiaro segnale di uno stato assente.
Il cocktail è semplice da creare: ragazzini di un quartiere marginalizzato, obbligati a lavorare sin dalla giovane età, la scuola un miraggio, oggetti e testimoni di ogni tipo di violenza, la cui unica alternativa è quella di aggregarsi alla gang del quartiere, che si presenta ed agisce di fatto come la vera autorità della zona, portavoce del malcontento popolare e spesso unico attore in grado di fornire qualche servizio di base alla popolazione.
“Sai, i ragazzini qui non hanno alternative, non hanno prospettive, per questo ho creato la Fondazione, per farli studiare, dare loro un futuro” queste le parole di Joseph*, capo di una gang armata, incontrato qualche anno fa a Cité Soleil, uno dei quartieri più bisognosi e pericolosi della capitale, mentre organizzavo un’attività di pulizia dei canali dalle tonnellate di rifiuti che caratterizzano la zona e provocano frequente inondazioni. Poco più che ventenne, look da rapper americano: catene di plastica al collo, cappellino da baseball e una cassa per la musica sulle spalle. Scambio due parole con lui, leggo nei suoi occhi imbarazzo, orgoglio, timidezza. Si scioglie davanti a me, un ragazzino poco più che teen-ager, imbarazzato davanti ad una ragazza. Fatico a ritrovare l’immagine del capo gang, vedo con chiarezza invece il ragazzino che avrebbe potuto essere se solo la realtà che lo circonda fosse stata diversa.
Indubbia l’origine dell’enorme quantità di armi in mano a queste gangs. C’è chi punta il dito verso l’opposizione, in molti assicurano che le gangs siano le nuove braccia armate del governo stesso utilizzate per creare caos e mantenere il potere.
“Una crisi dimenticata”, la definiscono le Nazioni Unite nel 2019. Un paese che interessa a pochi ma il quale “caos” fa comodo a molti.