Dal film alla vera storia” è la rubrica mensile di The Pitch – Olympia, che svela retroscena, curiosità, personaggi, fatti reali che caratterizzano e differenziano le trasposizioni cinematografiche delle più belle storie dello sport mondiale. Un excursus tra realtà e fantasia, in cui la prosa del reale diventa poesia della finzione e su cui i maestri del cinema appongono la ciliegina finale, grazie alle magistrali interpretazioni dei protagonisti e la firma d’autore di registi e sceneggiatori. In questa puntata parliamo di Cinderella Man, il film che racconta la vita da pugile di Jim Braddock.
Non è accaduto di frequente, all’interno della nostra serie, di poter parlare, oltre che di una bella storia di sport, anche di un bel film. Questo è uno di quei casi in cui si consuma un matrimonio idilliaco, una simbiosi che perfeziona la leggenda dello sportivo di cui ci apprestiamo a narrare le gesta. E se poi la pellicola, come accade spesso, piega al volere di un copione più accattivante la drammatizzazione dei fatti… beh, non puoi far altro che soprassedere e goderti il viaggio. Con Cinderella Man, si apre un trittico di veri capolavori del cinema, che hanno incorniciato alla perfezione le vite di chi ha compiuto e vissuto in prima persona straordinarie imprese sportive, andate oltre lo sport stesso.
Cinderella Man è un film del 2005, diretto da Ron Howard. Divenuto celebre, negli anni Settanta e Ottanta, per il ruolo di Richie Cunningham in Happy Days, in seguito è diventato un affermato regista, firmando, tra gli altri, capolavori come A Beautiful Mind, Apollo 13, Rush e Frost/Nixon il duello. Nonostante il cast stellare, che vede tra i suoi interpreti Russel Crowe, nel ruolo del protagonista, il pugile Jim Braddock; Renèe Zellweger che veste i panni della moglie Mae; e Paul Giamatti che dona le sue sembianze alla figura del manager Joe Gould, questa produzione non ha riscosso il successo di pubblico e di critica che meritava.
Nonostante le numerosissime le nomination, a cominciare dalle 3 agli Oscar e le 2 ai Golden Globe, fino alla nomination all’italico Nastro d’Argento, la bacheca è rimasta pressochè vuota. Anche in seguito, quando ha partecipato a festival di minore importanza. Misteri del mondo del cinema. In ogni caso ciò nulla sottrae alla bellezza di un film d’autore che merita di essere visto, o rivisto.
Si dice che Silvester Stallone, nello scrivere la sceneggiatura del primo Rocky della serie, si sia ispirato alla gesta del pugile Chuck Wepner. Ma il ruolo di sfavorito per eccellenza lo veste, forse prima di tutti, Jim Braddock. Il suo percorso è la perfetta sintesi della parabola di un underdog, che non si limita a prendere a pugni gli avversari, ma anche, e soprattutto, la vita. Più che di rivincita, secondo me, è una storia di occasioni prima mancate e poi colte. Il verificarsi di alcune coincidenze, hanno contribuito a creare la leggenda di quello che poi, grazie al giornalista Damon Runyon, è diventato la Cenerentola del ring. Non credo che ci sia mai stato un pugile, tranne Braddock, che avrebbe potuto esser orgoglioso di questo soprannome.
James Braddock nasce, cresce e vive tutta la sua esistenza nel New Jersey, dall’altra parte del fiume Hudson, che lo separa da Manhattan. Nella sua comunità è conosciuto come un ragazzo perbene, un irlandese anomalo. Niente ubriacature, niente risse, Jim è tutto lavoro e famiglia. Lavora come scaricatore di porto, ma come quasi sempre accade tra maschi, idolatra il fratello maggiore e vorrebbe seguirne le orme. Joseph Braddock è un pugile professionista che però capisce presto che non diventerà mai un campione. Così decide di ritirarsi incoraggiando il fratello James a cimentarsi nella nobile arte. Da subito il più giovane dei Braddock, si dimostra essere un pugile con molte più possibilità, forse non il migliore al mondo, ma certamente con una certa propensione per questa disciplina.
Debutta a 20 anni, nel 1926. Non essendo dotato di grande tecnica, costruisce le fondamenta dei suoi successi grazie a una forza esplosiva. Sono moltissimi gli avversari che stende al primo round, dopo avergli fatto assaggiare il suo potente destro. Nel giro di soli 3 anni non solo diviene professionista, ma arriva a disputare l’incontro per il titolo mondiale dei pesi medio-massimi contro il campione in carica Tommy Loughran. Vincere non avrebbe significato solo la conquista della cintura, ma anche salire al primo posto nella classifica degli sfidanti per il titolo dei pesi massimi. L’incontro si tiene il 18 luglio 1929 allo Yankee Stadium di New York. Braddock inizia il match bersagliando di colpi l’avversario. Sembra una facile vittoria, ma Loughran, dotato di maggiore tecnica, risale la corrente e vince ai punti.
Una sconfitta che brucia, ma che nei fatti non dovrebbe essere la fine del mondo. In fondo nessuno dei grandi campioni della boxe è mai rimasto imbattuto, perdere è capitato a tutti. James Braddock vanta comunque un ottimo record di 33 vittorie e sole 4 sconfitte, tutte ai punti. Basterebbero un paio di vittorie per tornare ad essere un pretendete al titolo. Ma due fattori non dipendenti dalla sua volontà stanno per condizionare la sua carriera: gli infortuni e il crollo della borsa. Negli anni Jim ha messo da parte un bel gruzzoletto, così come molti fanno negli Stati Uniti in quegli anni, investe tutti i suoi risparmi in borsa. Il 29 ottobre del 1929, il famoso venerdì nero, lui come tanti suoi compatrioti, perdono tutti i loro averi.
Questo lo costringe a tornare presto sul ring, per poter continuare a mantenere sua moglie e i suoi 3 figli, nonostante nel corso della sfida contro Loughran, Braddock si sia fratturato la mano destra. Così, affrettando i tempi di recupero, disputa un match dopo l’altro. Per ben 4 anni vive praticamente in povertà, perde spesso e volentieri disputando incontri sempre meno di prestigio e la mano, si frattura nuovamente nel corso di molti degli incontri successivi. È persino costretto a tornare a lavorare al porto e a chiedere il sussidio statale per fa quadrare i conti.
Il 25 settembre 1933 sale sul ring per davvero pochi dollari di borsa, contro un certo Abe Feldman. L’incontro è talmente scadente che l’arbitro lo interrompe senza decretare il vincitore. Braddock si arrende: non può più pensare di provvedere ai bisogni dei suoi cari col pugilato. Dice basta e si procura un impiego in un bar, che affianca alla sua occupazione al porto. La mano destra è talmente malmessa che per poter continuare il faticoso lavoro di scarico merci ai docks, deve imparare a utilizzare prevalentemente la sinistra, pur non essendo mancino. Incredibilmente, da una banale necessità, inizia la svolta per la vita di Jim.
Passano 9 mesi, giugno del 1934. Il candidato al titolo dei pesi massimi John Griffin deve disputare un ultimo incontro preliminare, prima di affrontare il campione, l’italiano Primo Carnera. Ma il pugile che avrebbe dovuto incontrare Griffin si infortuna a 2 giorni dal match. Così Joe Gould, manager di Braddock, si infila in uno spazio vuoto. Propone al suo omologo di far salire sul ring il suo assistito. Quella di Gould è una mossa molto furba: non pensa certo che Jim possa vincere, vuole solo garantirgli una borsa succulenta per poter sistemare i conti in rosso di casa Braddock. Griffin all’inizio rifiuta, Gould però riesce a toccare le corde giuste: Jim non è mai stato messo al tappeto, quindi potrebbe essere il primo a riuscire in questa impresa. Basta saper stuzzicare l’ego degli uomini nel modo giusto e un apparentemente fermo diniego, diventa un sì.
Il 14 giugno 1934 Jim Braddock torna sul ring come vittima sacrificale. Va lungo disteso già al primo round, sembra essere l’inizio del suo calvario. Invece, sorprendentemente, non solo ritrova il suo destro perfettamente guarito, ma stampa sulla faccia del rivale anche un sinistro poderoso, frutto del lavoro al porto. Contro ogni pronostico, vince contro l’aspirante al titolo dei massimi alla terza ripresa, per KO.
Intanto Primo Carnera viene umiliato dallo sfidante Max Baer, che lo stende ben 12 volte nel corso della stessa sera. Baer possiede un destro assassino, nel vero senso della parola: nel corso della sua carriera due dei suoi avversari muoiono sul ring. Nonostante nel film Baer si mostri orgoglioso di questo macabro primato, chi gli è stato vicino racconterà di un pugile che ha dovuto fare i conti per diversi anni con il rimorso.
L’inaspettata vittoria di Braddock sconvolge il mondo del pugilato e apre nuovi scenari. Quello contro Griffin doveva essere il match del definitivo addio al ring, ma dopo aver battuto un aspirante campione, si guadagna il diritto di combattere ancora, garantendosi ingaggi sempre maggiori. Gli si parano davanti altri due pretendenti alla corona dei massimi: il 16 novembre 1934 l’avversario è John Herry Lewis, il 22 marzo 1935 è invece il turno di Art Lasky. Braddock sovverte nuovamente le previsioni, ottenendo due vittorie ottenute ai punti. Quante possibilità c’erano che un ex pugile battesse tre dei migliori esponenti del quadrato di allora? In soli 3 incontri arriva dove non era arrivato negli 80 disputati in precedenza, ovvero a sfidare il campione dei massimi.
Il 13 giugno 1935, la Cenerentola del ring sfida sulla distanza delle 15 riprese il fortissimo e temibilissimo Max Baer. In quegli anni la gente è finita a vivere in baracche, il potere d’acquisto è diminuito del 45%, i disoccupati sono 13 milioni e il 40% della popolazione vive in povertà. Jim rappresenta una speranza di rinascita per tutte quelle persone. Baer è ricco, aitante, famoso, giovane… è il campione, non può rappresentare il popolo. Così praticamente tutta la nazione, quella sera, è all’angolo di Braddock.
I primi 2 round i due pugili si studiano. Nel terzo Baer mette a segno un serie di colpi al corpo che Braddock accusa. Dirà in seguito: «Aveva un pugno che era autentica dinamite. Se ti prendeva bene, potevi finire in terza fila». Jim iniziò allora una guerra psicologica con il suo avversario, provocandolo con frasi tipo «Non sai fare meglio di così?». L’incontro continua, non si sa se il campione venga davvero condizionato dalle provocazioni dell’avversario, ma quello che è certo è che soffre il sinistro di Braddock. Che non solo resiste, ma mattone su mattone, inizia a costruire la sua vittoria, aggiudicandosi un round dopo l’altro.
Quando comincia la 15ª ripresa, Baer sa bene di essere in svantaggio e tenta il tutto per tutto con una scarica violenta di colpi, ma Braddock rimane ben piantato a terra e proprio sul gong che decreta la fine dell’incontro, colpisce con uno dei suoi destri alla mascella il rivale, è il colpo che non lascia dubbi: la vittoria ai punti è sua.
Braddock non è stupido, sa bene che non può andare oltre quello che ha già fatto, per questo rimetterà in palio il suo titolo soltanto 2 anni più tardi, il 22 giungo 1937, contro Joe Luis. Non c’è nessuno, neanche il più romantico degli sportivi, che possa credere che la favola continui, tanto più contro quello che diventerà uno dei più grandi campioni della boxe. Per descrivere la potenza dei pugni di Luis, Jim fece questo esempio: «era come se qualcuno ti spaccasse una lampadina in piena faccia». All’ottavo round, una gragnola di colpi dello sfidante mise Braddock al tappeto. «Avrei potuto restare a terra 3 settimane», dirà in seguito. Joe Luis è il nuovo Campione del mondo dei pesi massimi, mentre 7 mesi dopo Braddock, al termine del vittorioso incontro con Tommy Farr, annuncerà il suo ritiro.
Cinderella man comunque ha vinto, è stato il campione del mondo dei pesi massimi. La sua resterà per sempre una delle vittorie più incredibili della storia dello sport. Un successo non soltanto contrario a ogni pronostico, ma in un certo senso, anche alla logica. Con i soldi ricavati grazie a quei 4 incontri e ad una tourneè di esibizione, che sosterrà successivamente alla conquista del titolo, metterà per sempre al sicuro la sua famiglia da altri guai finanziari.
Diventerà un imprenditore di successo, partecipando con la sua impresa anche alla costruzione del Ponte di Verrazzano, a New York, quello da dove oggi parte la maratona. Pochi anni dopo la sua morte il parco di fronte alla sua casa dl Bergen, nel New Jersey, verrà ribattezzato North Hudson Braddock Park. Max Baer invece, dopo il pugilato tenterà la carriera del cinema, con poco successo. Mentre Joe Luis diventerà uno dei migliori pugili della storia, disputando 70 incontri, vincendone 67, di cui ben 53 per ko.