Il 13 settembre 1993 vennero firmati da Yasser Arafat e Yitzhak Rabin gli Accordi di Oslo che avrebbero dovuto dare via al “Processo di pace” verso una soluzione della questione israelo-palestinese basata sulla creazione di due stati. Da lì a pochi anni si sarebbe dovuto formare uno stato palestinese indipendente, lungo i confini del ‘67, in cambio del riconoscimento di Israele nel 78% della Palestina storica e la rinuncia alla resistenza armata.
Gli accordi vennero siglati due anni e mezzo dopo l’inizio dell’operazione “Desert storm” con cui gli Stati Uniti di George Bush nel gennaio del 1991 invasero l’Iraq di Saddam Hussein, dopo che per mesi (dall’agosto del 1990 al gennaio del 1991) si era cercato di trovare una soluzione diplomatica alla sciagurata mossa con cui Saddam decise di annettere il Kuwait. Lo scoppio della guerra del Golfo fu un evento spartiacque per la causa palestinese. La scelta di Arafat di appoggiare Saddam Hussein (tra i principali finanziatori dell’OLP) ebbe un duplice effetto. Da un lato il leader palestinese si ritrovò isolato dal punto di vista internazionale di fronte all’imponente coalizione a guida statunitense, e dall’altro i 500.000 profughi palestinesi presenti in Kuwait furono in gran parte costretti ad abbandonare il paese piombato nel caos.
Il successo delle colombe del Partito laburista alle elezioni israeliane del 1992, poi, contribuì a creare le condizioni con cui si giunse alla firma degli Accordi che vennero percepiti e presentati come un impulso decisivo nella direzione di una soluzione stabile e duratura alla decennale questione, ma che nella realtà dei fatti hanno contribuito a creare le condizioni per il deterioramento e l’accantonamento di ogni possibilità di garantire al popolo palestinese una cornice normativa all’interno della quale dare vita alla propria autodeterminazione.
Edward Said, scrittore e professore universitario, autore del saggio “Orientalismo”, già nel novembre del 1993 dipinse gli Accordi di Oslo come un atto di resa della leadership palestinese, che in un momento di debolezza accettò quella che venne presentato come l’unico accordo possibile con la controparte israeliana. Amico ma anche feroce critico di Arafat, Said denunciò a più riprese la corruzione e la mancanza di strategia dei leader palestinesi nel corso dei negoziati e nelle fasi successive. Con gli accordi di Oslo, i palestinesi sarebbero “costretti a sopportare l’umiliazione di misere patrie non contigue, mentre Yasser Arafat e i suoi sostenitori si sono trasformati in garanti della sicurezza di Israele”.
Oltre alla definizione di zone distinte (la zona A sotto il controllo palestinese, la zona B sotto il controllo congiunto e la zona C sotto il controllo di Israele) gli accordi di Oslo prevedono la creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese, alla guida della quale si è instaurato stabilmente lo stesso Arafat. Fin dalla sua istituzione, l’ANP (che è sempre rimasta in mano a Fatah) è stata accusata di intrattenere rapporti di stretta cooperazione con Israele e utilizzare il malcontento della popolazione palestinese solamente come arma per i propri obiettivi politici. La parzialità degli accordi e la creazione dell’ANP hanno di fatto contribuito a generare una spaccatura politica e a creare un distacco tra i palestinesi di Gaza, quelli della Cisgiordania e la minoranza araba in Israele. A partire dal 1993 si sono intensificate le demolizioni di abitazioni palestinesi in Cisgiordania, e Israele ha perseguito la politica “del fatto compiuto”, volta a ridimensionare la presenza palestinese distruggendo abitazioni e installando coloni e militari. Il ritiro dalla zona B e dalla zona C delle truppe israeliane non è chiaramente mai avvenuto. Negli accordi, inoltre non ci sono richiami al destino dei rifugiati palestinesi né al nodo della città di Gerusalemme. Le varie conferenze conferenze degli anni ’90 culminarono nel fallimento del fallimento dei negoziati di Camp David del 2000 e nello scoppio della seconda intifada in seguito alla camminata di Ariel Sharon sulla Spianata delle Moschee.
A quasi 30 anni dalla firma degli Accordi e mentre si consuma la peggior crisi dal 2014, appare sempre più evidente come uno dei primi passi da compiere per il popolo palestinese sia liberarsi di una leadership debole, troppo interessata a mantenere la propria posizione e che con le proprie decisioni ha contribuito a creare le condizioni per l’instaurazione di un regime di apartheid da parte di Israele. Risale a meno di un mese fa la decisione di Abu Mazen di rinviare a data da destinarsi le elezioni che si sarebbero dovute tenere per la prima volta dal 2006, e anche in questo caso il richiamo alla mancata concessione del voto ai palestinesi di Gerusalemme Est come causa del rinvio è chiaramente strumentale.
I bombardamenti israeliani su Gaza stanno creando una grandissima mobilitazione popolare sia in Cisgiordania che nelle città israeliane “miste” (come Lod e Giaffa). La speranza è che la drammaticità del momento possa innescare un movimento che porti una volta per tutte alla rimozione della vecchia leadership, che il popolo palestinese possa ritrovare unità in vista di un destino condiviso e che le divisioni degli ultimi anni possano essere superate in nome di una causa comune. La mobilitazione in corso dimostra che lo spirito della piazza palestinese è vivo e che le nuove generazioni hanno gli strumenti per portare avanti le proprie lotte in modo legittimo.
I tentativi di Israele di rendere impraticabile la soluzione dei due stati sono evidenti e pubblicamente sbandierati. Come sottolineato da Edward Said, gli Accordi di Oslo non hanno fatto che allontanare la possibilità di una vera riconciliazione tra il sionismo e la causa palestinese. A Oslo hanno trionfato i potenti, e la perdita di fiducia nella possibilità di trovare una soluzione veramente accettabile per il popolo palestinese si è tradotta anche nel nichilismo e nella disperazione degli attentati suicidi degli anni successivi agli accordi. La miopia e la corruzione della leadership palestinese negli ultimi anni hanno fatto il gioco di Israele, e la deriva dell’asse politico dello stato su posizioni di estrema destra (con l’approvazione della legge sullo stato-nazione) sta creando le condizioni per un progressivo deterioramento delle condizioni di vita di milioni di palestinesi. Il compito del nuovo corso palestinese deve essere quello di risvegliare la fiducia e la volontà del popolo di poter creare un cambiamento.
Mentre gli Accordi di Abramo avevano contribuito a rendere totalmente marginale la questione palestinese, la crisi attuale ha inevitabilmente riportato il tema in cima all’agenda politica di molti paesi. La stessa Cina si è proposta come mediatore presentando un appello in 4 punti. Forse proprio il tentativo cinese di inserirsi come nuovo attore diplomatico può convincere l’Occidente della necessità di intervenire in modo concreto. L’ingiustizia e la belligeranza purtroppo non diminuiscono da sole: tutti gli interessati devono combatterle.