“C’era una Tappa” è la rubrica di Olympia che racconta alcune delle leggendarie imprese compiute al Giro d’Italia, che trascendono le due ruote. Perché la storia della Corsa Rosa s’intreccia a doppio filo con quella del nostro Paese.
In questa sesta puntata raccontiamo della rimonta di Francesco Moser nella cronometro di Verona, ultima tappa del Giro d’Italia 1984.
L’anno domini 1984 non è esattamente quello previsto da George Orwell, nonostante la presenza, perlomeno nel territorio italiano, di qualche evento distopico e difficilmente prevedibile. Per esempio, è l’estate che cambia la vita di Napoli e dei napoletani, perché in un giorno di luglio atterra a Capodichino (via Barcellona) un ragazzo argentino di Villa Fiorito, periferia di Buenos Aires, destinato a segnare un’epoca.
Se il più forte calciatore del mondo sceglie di giocare in una squadra ancora vergine di trofei, allora il Festival di Sanremo, giunto all’edizione numero 34, può ospitare, come super-ospiti internazionali, nientemeno che i Queen. È un anno rivoluzionario, certo, ma ci sono mondi che per forza di cose non cambiano mai. E a Sanremo, anche se all’anagrafe ti chiami Farrock Bulsara (in arte Freddy Mercury), devi esibirti in playback. Il leader dei Queen non è d’accordo e decide di protestare a modo suo, tenendo il microfono lontano dalla bocca e costringendo la regia ad abbassare l’audio della canzone. Il risultato finale non è un granché.
D’altronde – non ce ne voglia Freddy – il padrone di casa a Sanremo è uno solo ed è un signore catanese nato nel giugno del 1936. Pippo Baudo invita sul palco gli operai dell’Italsider di Genova, i quali nella serata inaugurale si erano ammassati fuori dal Teatro Ariston per protestare contro il piano licenziamenti previsti dall’azienda. Il conduttore del Festival legge in diretta nazionale le rivendicazioni dei lavoratori liguri, in un’epoca storica in cui era ancora possibile sfruttare un grande evento mediatico per affrontare un tema scottante e d’attualità.
LO SCERIFFO MOSER
Restiamo a Sanremo, anche se facciamo scorrere la lancetta dell’orologio in avanti. A metà marzo va in scena la Classicissima e dopo lo show di Pippo Baudo tocca a Francesco Moser dare spettacolo nella città dei fiori. Sul Poggio il corridore risponde agli attacchi di Madiot, Roche e Millar, si invola in discesa e arriva in solitaria in via Roma. Vince con 20 secondi sugli inseguitori, mostrando una condizione fisica impeccabile. Forse va troppo forte, sussurra qualcuno, visto che siamo solo ad inizio primavera, al Giro d’Italia mancano ancora due mesi e mai come quest’anno Moser ha messo la Corsa Rosa in cima agli obiettivi stagionali.
UNA CORSA SU MISURA
Vincenzo Torriani è un personaggio che ritorna spesso nelle storie del Giro d’Italia. È stato il Patron dal 1949 al 1993 e si è potuto gustare, tra gli altri, l’epoca d’oro di Coppi, l’ultimo Bartali, Merckx e Gimondi. Non ha fermato la corsa sul Bondone nel 1956, né sul Gavia nel 1988: in entrambi i casi sarebbe potuta andare molto peggio di qualche banale caduta. Per la corsa del 1984 Torriani e la sua équipe disegnano un Giro d’Italia fatto su misura per Francesco Moser. I chilometri a cronometro sono 140, un’enormità per il Giro, il cui gran finale è sempre caratterizzato dai tapponi dolomitici, piuttosto che da lunghe cronometro pianeggianti.
Nelle sfide contro il tempo Moser è di un altro pianeta, tant’è che proprio a gennaio del suo straordinario 1984 ha battuto il record dell’ora, precedentemente nelle mani di Eddy Merckx, sfruttando, oltre al suo innegabile talento, anche delle particolari ruote lenticolari e l’ossigeno di Città del Messico (proprio come Mennea e i suoi leggendari duecento metri nel 1979). Fino a questo momento il palmares dell’italiano è a dir poco invidiabile. Una Freccia-Vallone, tre Parigi-Roubaix consecutive, un Mondiale, due Giri di Lombardia, la Milano-Sanremo e il record dell’ora. Il rapporto con il Giro, però, si potrebbe definire conflittuale: una storia di vorrei ma non posso. I podi sono stati tre, tutti consecutivi, dal 1977 al 1979. I giorni in rosa addirittura 27, ma quella maglia, Francesco Moser, non è mai riuscito a portarla fino alla fine.
ITALIA VS FRANCIA
Il Giro d’Italia del 1984 odora di ultima spiaggia, poiché gli anni sono trentatré e i giovani rivali vanno fortissimo. In particolare, alla partenza da Lucca, si presenta Laurent Fignon, uno dei pochi parigini puri montati in sella per correre realmente e non per una semplice balade lungo la Senna. L’anno precedente, a soli ventitré anni, ha conquistato il Tour de France e nel 1984 si presenta alla Corsa Rosa con ambizioni di vittoria. Francesco Moser è avvisato, poiché il francese nelle sfide contro il tempo si difende egregiamente (alla Grande Boucle ha vinto la cronometro di Digione) e in salita va molto forte, tant’è ha conquistato la maglia gialla sull’Alpe d’Huez, la salita più iconica della storia del ciclismo.
Anche quell’anno il Giro dona agli italiani uno scenario di partenza meraviglioso. All’interno delle mura medievali lucchesi, il cronoprologo regala a Moser la 28ª maglia rosa della sua carriera, simbolo del primato che, però, è costretto a cedere il giorno successivo in un’altra cronometro (questa volta a squadre) con arrivo a Marina di Pietrasanta. La Renault-Elf di Fignon si impone sulla Gis Gelati di Moser e dopo soli due giorni di corsa (e 60 chilometri in totale) le carte vengono subito scoperte: sarà un duello all’OK Corall tra il parigino e il trentino, i quali saranno gli unici due corridori in quel Giro ad indossare l’effige (rosa) del primato.
LO SCIOPERO FARSA
Il 22 maggio, giorno di Santa Rita (protettrice della cause impossibili), il corridore italiano spodesta il francese e ritorna in vetta alla classifica generale, guadagnando importanti secondi lungo la scalata del Gran Sasso. La carovana scende in Puglia e nella 7ª tappa (Foggia-Marconia di Pisticci) vergogna e farsa si mischiano in un tutt’uno. Come avvenuto non più tardi di qualche mese fa (il Giro 2020 si è corso in autunno per ovvie ragioni pandemiche) i corridori decidono di “scioperare”.
Il gruppo ritiene che le strade da percorrere siano troppo pericolose (specialmente un paio di curve insidiose e una galleria particolarmente buia), così decide di procedere ad andatura turistica fino all’arrivo nella cittadella lucana. Gruppo compatto? Più o meno, visto che il velocista svizzero Freuler (neutrale sì, ma non allineato) trasgredisce il patto comune, allunga e vince la tappa, mentre la quasi totalità dei restanti corridori sceglie di percorrere gli ultimi cento metri a piedi. Gli addetti ai lavori, a seconda dei toni utilizzati, parlano di figuraccia, farsa e vergogna. Non sarà l’ultima polemica di un Giro che comincia lentamente a infiammarsi.
STELVIO, LA REGINA DELLE STRADE
La causa impossibile di Moser non è conquistare la maglia rosa, quanto piuttosto riuscire a indossarla fino al finale arrivo fiabesco all’interno dell’Arena di Verona. All’alba dell’ultima settimana tutto è ancora in discussione: il vantaggio accumulato dall’italiano non lo mette al riparo dai pericoli, poiché Fignon è a soli due minuti e le montagne da scalare sono ancora parecchie. Ma nell’ultimo giorno di riposo, il 6 giugno, entra in scena Vincenzo Torriani (che da buon lombardo conosce bene Manzoni): il patron si traveste da bravo di Don Rodrigo e proclama una sentenza inaspettata: lo Stelvio, previsto per il giorno seguente, non s’ha da fare, né domani né mai. E non è un’esagerazione, dato che una delle salite simbolo della storia del Giro tornerà d’attualità solamente nel 1994, quando a Torriani sarà già succeduto Carmine Castellano.
Lo Stelvio è oggettivamente impraticabile a causa delle condizioni atmosferiche e il gruppo può tirare un sospiro di sollievo. Qualcuno, però, di nascosto mormora: è Laurent Fignon, che attendeva la leggendaria salita lombarda per poter attaccare Moser e sfilargli la Rosa. Per il francese, la decisione di tagliare lo Stelvio (e accorciare considerevolmente la tappa) è un complotto ordito per aiutare il corridore di casa. Il parigino si incazza, ma a una frustrazione momentanea, a cui segue la reazione del grande campione: il giorno seguente, nella terz’ultima tappa, trionfa ad Arabba e si prende la Maglia Rosa. La penultima tappa è un semplice trasferimento fino a Treviso, ma Fignon è pienamente consapevole che non può ancora gustarsi le bollicine del Prosecco, poiché l’indomani ci sono i 42 chilometri che separano Soave dall’Arena di Verona. Non è una maratona, ma è l’ultimo atto di un duello magnifico.
LA CRONOMETRO DI VERONA
Moser deve recuperare un minuto e mezzo. Impresa possibile, ma nella storia del ciclismo le cronometro finali sono storicamente una grossa incognita. Le caratteristiche fisiche e atletiche dei corridori hanno un’importanza relativa: ciò che conta è chi è più fresco di gambe e soprattutto di testa (per un ultimo esempio citofonare a Primoz Roglic e alla sua personalissima Caporetto vissuta l’anno scorso in maglia gialla).
Gli italiani si riversano nelle strade veronesi, spingono il nostro compaesano e, abitudine che non ci fa onore, fischiano il francese. Si capisce fin dai primi chilometri che il trentino ha un altro passo, mentre il parigino è in netta difficoltà. Moser, partito penultimo, fa segnare il miglior tempo e si mette comodo, in attesa di Fignon. Lo speaker del Giro ha il cronometro sotto mano e fa partire un countdown che infiamma l’Arena di Verona. L’ufficialità arriva quando il francese è ancora molto distante dall’antico teatro romano e Moser si commuove in diretta televisiva mentre la Rai gli comunica il verdetto. Ma non è ancora finita e il Giro delle polemiche ne impiatta subito un’altra. Ad accendere la miccia è ovviamente lo sconfitto, il quale sostiene che l’elicottero delle riprese RAI ha seguito Moser troppo da vicino, aiutando nettamente l’aerodinamica del corridore.
I PROTAGONISTI
Vincenzo Torriani: Quattro anni dopo dopo l’annullamento dello Stelvio, dà il via libera per l’ascesa del Gavia. La tappa resta nella memoria collettiva nazionale per svariati motivi, in particolare per il folle tentativo in maglia ciclamino (senza mantellina o impermeabile) del tulipano Johan Van der Velde.
Laurent Fignon: Soprannominato Le professeur per la sua abitudine a correre indossando gli occhiali da vista, nel 1984 bissa il successo al Tour de France. Nel 1989, invece, si prende la sua personalissima rivincita, conquistando finalmente il Giro d’Italia. Muore a soli cinquant’anni nel 2010, a causa di un tumore al pancreas. Riposa nel colombario del Pere Lachaise.
Francesco Moser: Conquisa altri due podi al Giro nel biennio successivo. In fase calante, decide di ritirarsi definitivamente nel 1988. Con 273 vittorie è ancora oggi (e lo sarà per molto tempo ancora) il ciclista italiano più vincente di sempre.