Ernesto De Martino studia il pensiero magico nella sua dimensione storica e sceglie la Lucania come terreno di ricerca. Un Mezzogiorno che «va al di là della geografia, per diventare una regione dell’anima».
Siamo abituati a pensare al pensiero magico come antitesi al pensiero razionale. Magico è uguale a irrazionale, caratteristico di un pensiero arcaico. Razionale è invece il procedere della storia, il progresso, l’avanzamento tecnologico. In Lucania, il più importante antropologo italiano, ha dimostrato invece che la magia è dentro la storia. E che i confini tra pensiero magico e comportamento razionale sono molto più sfumati di quanto siamo abituati a pensare.
Un nuovo approccio
Ernesto De Martino nasce a Napoli nel 1908. Si avvicina presto al pensiero di Benedetto Croce e alla corrente filosofica dello storicismo. Si propone di applicare una prospettiva storicista anche allo studio della storia delle religioni e dell’etnologia, discipline tradizionalmente escluse da questo tipo di approccio. Nel 1950 si iscrive al partito comunista e unirà al rigore e alla passione per gli studi etnoantropologici una forte militanza politica.
L’interesse per la magia e la religione si associa a quello per le realtà povere e marginalizzate del Sud Italia. Cruciale è la lettura dei Quaderni di Antonio Gramsci e le sue riflessioni sulla cosiddetta questione meridionale. Gramsci denunciava l’atteggiamento della borghesia settentrionale verso i contadini meridionali, considerati «esseri inferiori, semibarbari o barbari completi, per destino naturale». Da Gramsci impara anche il lessico per descrivere egemonia e subalternità, chiavi di lettura fondamentali per analizzare le dinamiche culturali in Meridione.
Altri riferimenti sono il poeta Rocco Scotellaro e Carlo Levi, autore di Cristo si è fermato a Eboli. Scritto tra il 1943 e il 1944, a metà tra memoir e reportage, è un testo che avrà molta influenza sulla rappresentazione di queste terre. Levi racconta il popolo lucano come «gente mite, rassegnata e passiva, impenetrabile alle ragioni della politica». Descrive un mondo dominato dalla superstizione, gente sfruttata e oppressa dalla miseria più nera, ai margini della Storia, senza adeguati strumenti culturali. De Martino rimarrà affascinato dall’opera di Carlo Levi, ma opporrà una lettura diversa – assolutamente originale – del mondo contadino meridionale e della sua cultura.
Prima spedizione in Lucania
Siamo negli anni Cinquanta del Novecento. Sullo sfondo, un’Italia ancora smarrita dalle macerie di una guerra civile e della Seconda Guerra Mondiale, in cui si va rapidamente affermando il miracolo economico e lo sviluppo tecnologico. Lo sviluppo non è uniforme, il territorio nazionale è molto frammentato sia economicamente, che socialmente, che culturalmente. Il miracolo economico per i contadini del Sud non è neppure un miraggio. Dopo la caduta del fascismo, che aveva dissimulato i problemi del Sud costruendo miti di arcadie e tradizioni genuine, i problemi del Mezzogiorno riaffiorano in tutta la loro gravità. In pieno miracolo economico, l’operazione di Ernesto De Martino costringeva a prendere atto che l’Italia profonda non corrispondeva all’immagine che il paese aveva di sé.
De Martino era un personaggio fuori dal coro che esprimeva un pensiero eterodosso e radicale. L’interesse per la Lucania inizia proprio dopo la lettura del romanzo di Levi. La prima spedizione etnografica è del 1952 e produce una ricca serie di materiali eterogenei: documenta canti popolari, la pratica del pianto rituale, comportamenti magico-religiosi. Tornerà in Lucania per altre ricerche negli anni successivi. Il materiale raccolto – e la sua preziosa elaborazione teorica- sarà pubblicato in libri destinati a diventare grandi classici del pensiero antropologico, come Sud e magia e Morte e pianto rituale nel mondo antico. Ma l’opera di De Martino non si ferma alla cerchia di specialisti: le spedizioni etnografiche hanno dato come esito anche registrazioni radiofoniche e documentari prodotti dalla RAI per il grande pubblico. Fatto importante, che fa emergere la portata culturale dell’operazione e la mette in relazione con il contesto dell’epoca.
La fascinazione
A Colobraro, una fattucchiera tratta una donna che soffre di acuti mal di testa, che si sospetta abbiano natura magica. Pronuncia una formula: Affascine ca vaie pe’ la via – da N. N. non ci ire – che è bona nata; battezzata, cresimata. A nome de Ddie e de la Santissima Trinitate. Esegue dei massaggi a forma di croce sulla fronte della donna, usa un’acqua nella quale sono stati versati nove pizzichi di sale e tre tizzoni accesi del focolare.
La fascinazione è il fulcro della magia cerimoniale lucana. Con questo termine De Martino indica:
La fascinazione è chiamata anche malocchio, invidia o fattura, e vede sempre la presenza di un agente fascinatore e di una vittima. Il trattamento della fascinazione è svolto da operatori magici specializzati, ad esempio le fattucchiere, i guaritori o gli indovini. Nei quaderni di De Martino sono riportate diversi racconti sulle modalità di svolgimento, sulle credenze e le tecniche magiche. De Martino interpreta l’essere fascinato come sublimazione di uno stato di prostrazione fisica, morale e sociale. Descrive la fascinazione come una condizione psichica di impedimento, in cui l’individuo si sente dominato da una forza occulta che lo rende incapace di agire autonomamente.
La magia come mezzo per agire sul mondo
In Lucania, De Martino mette in atto un innovativo approccio alla ricerca, che battezzerà etnocentrismo critico: l’impegno, da parte dell’etnologo, di mettere continuamente in discussione le proprie categorie analitiche. Tali categorie, infatti, non sono assolute, ma derivano dal proprio punto d’osservazione. In tale senso invita a guardare alla magia.
La magia non è un elemento che si riscontra in età arcaiche, non precede la civiltà, ma è un dispositivo sempre presente nella storia, che riguarda la vita degli individui e i rapporti tra culture popolari e cultura alta. Questo rapporto si modifica nel tempo e si trasforma, in relazione al mutare storico. La magia si riplasma nella storia, ha un’efficacia di tipo simbolico e ha valore nel determinato contesto a cui si rapporta.
De Martino connette le pratiche magiche con il bisogno di riscatto dalle condizioni di miseria psicologica e materiale in cui vivevano i contadini lucani. La magia è lo strumento attraverso cui operare tale riscatto. Riti e simboli magici non rimandano a una mentalità primitiva, fuori dalla Storia, come sembra indicare Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli. La magia non nega la storia. Consente, invece, di riassorbire i traumi della Storia in un orizzonte comprensibile, dove l’essere umano può riappropriarsi della propria capacità di agire.
Crisi della presenza
Esistono situazioni di vita in cui un individuo (o anche un’ intera comunità) non ha strumenti a disposizione per risolvere un problema, che si configura quindi come una minaccia all’esistenza stessa. La ricerca di strumenti per agire si sposta quindi dal piano storico, del flusso degli eventi, a un piano che possiamo chiamare metastorico. Quest’ultimo si può definire come un ordine superiore, mitico, fuori dal tempo, nel quale situazioni simili sono già state risolte. La magia, la religione, la mitologia, appartengono a questo orizzonte metastorico e offrono gli strumenti per superare quella che De Martino definisce crisi della presenza. Si muovono ai confini della ragione umana, dove essa minaccia di perdersi. E con la perdita del senso di sé, svanisce il senso del mondo. Sono strumenti sociali e culturali che fanno da argine al caos, al dissolvimento dell’ordine del mondo.
De Martino definisce la presenza un «sentirsi parte del mondo, con tutte le memorie e le esperienze che permettono di affrontare in modo adeguato, tramite le proprie azioni, una determinata situazione storica». La crisi della presenza è propria di momenti dell’esistenza che si configurano come apocalissi, come crollo di un mondo, come ad esempio: la malattia, la morte, esperienze di migrazione o laceranti conflitti morali. Sono esperienze di spaesamento e angoscia profonda in cui l’uomo si sente incapace di agire, si percepisce come agito da altro.
Magia e religione svolgono una funzione radicante che restituisce identità al soggetto e gli consente di riaffermare il diritto all’esserci. Il caos viene gestito, l’angoscia rientra, grazie ad una ritualità che reintegra il soggetto in un orizzonte di senso, seguendo una grammatica culturale definita e condivisa. La ritualità magica della tradizione, a cui si affidavano i contadini lucani, non serviva a “fare miracoli”, ma a dare protezione e reintegrazione psicologica, ad allontanare la malattia e riabilitare all’esistenza.
Apocalissi d’oggi
De Martino muore nel maggio del 1965, all’età di 57 anni. Stava completando quella che sarebbe stata la sua opera più importante, La fine del mondo, che amplia la riflessione sulla crisi della presenza. Ha come oggetto le “apocalissi culturali“. Il pericolo di crollare, di arrendersi, di fronte difficoltà che sembrano insormontabili, non riguarda soltanto l’individuo, ma anche la collettività. Le apocalissi culturali accadono quando un popolo vede la fine del proprio mondo, come è accaduto, per esempio, per le popolazioni amerindie all’arrivo dei conquistatori europei. Le catastrofi, i momenti in cui una società va in crisi, hanno impatto diretto sulle vite degli individui e sulla materialità dei loro corpi. Il simbolico si incarna, diventa angoscia e malattia. Le apocalissi sono vissute, sono i corpi a vivere questa “fine di un mondo”. E le risposte alla crisi sono sempre risposte culturali.
Dopo più di cinquant’anni, in un mondo globalizzato che ha secolarizzato la sua ritualità dalla magia ai beni di consumo, le riflessioni di De Martino hanno ancora forza. Proprio oggi, che il mondo si sta confrontando con l’emergenza pandemica e con la minaccia ambientale. La cultura è una grande macchina di senso, una costruzione per metterci a riparo dall’insensatezza, dal nostro essere materia e dal puro scorrere del tempo. Oggi, che il virus ci ha mostrato nella nostra nuda corporeità e l’emergenza climatica ci fa sentire quanto fragile sia l’ambiente che ci ospita, siamo – con De Martino – di fronte a un’apocalisse. Ma l’apocalisse non è la fine del mondo, è la fine di UN mondo. La nostra responsabilità è decidere cosa farne, come dare un senso.