Napoleone fu un personaggio storico complesso, ricco di luci e di ombre. La sua considerazione nel panorama contemporaneo dipende in larga parte dalla prospettiva attraverso cui lo si osserva. Perché punti di vista diversi sono in grado di rovesciare il mito napoleonico costruitosi in Italia? E qual è stato il ruolo manzoniano nella formazione di questo monumento?
Partiamo osservando Napoleone dall’angolazione britannica. Robert Tombs, accademico di Cambridge, nell’inserto La lettura del 18 aprile 2021 offre un interessante relativizzazione della sua figura. Attraverso lo sguardo inglese Napoleone appare come un modernizzatore autoritario, come l’incarnazione del tiranno. Perché questa differenza rispetto al personaggio celebrato come esportatore della libertà? La motivazione risiede nel processo storico che ha coinvolto il Regno Unito: «Nei successivi duecento anni è stato presentato come una minaccia all’indipendenza britannica da parte di un tiranno straniero» scrive Tombs. Il ruolo di Napoleone come difensore dei valori della Rivoluzione francese, quindi, è venuto meno. Inoltre bisogna considerare che nel ‘700, dopo la rivoluzione inglese, il Regno Unito si vedeva già libero e le trasformazioni in corso in Francia non costituivano una fonte di ulteriore emancipazione, ma una minaccia.
Naturalmente anche dal punto di vista dei Paesi cha hanno subito il colonialismo non appare come una figura positiva. La Francia fu il primo Stato europeo ad abolire la schiavitù nelle sue colonie (1794), ma Napoleone la reintrodusse nei Caraibi nel 1802. Naturalmente conosceva bene gli ideali illuministici portatori di libertà e dignità, che comunque valevano unicamente per gli individui di genere maschile – nel 1793 la Convenzione dichiarò che le donne non avevano lo statuto di cittadine, escludendole dalla discussione sui diritti –. Decise però di subordinarli a fini utilitaristici e di conquista: la schiavitù era troppo vantaggiosa dal punto di vista economico e sociale per abolirla o indebolirla.
La prospettiva italiana è sicuramente diversa. Napoleone ha dato forza all’idea di un’Italia e di un’Europa unite. I patrioti e le patriote del tempo trovarono in lui un punto di riferimento e una spinta verso la progettazione di un riscatto nazionale. Le riforme napoleoniche, quindi, sono considerate alla base della presa di coscienza che diede origine al Risorgimento. Dopo la caduta della monarchia francese, nel 1792, si diffusero in Italia alcuni gruppi repubblicano-democratici che miravano all’indipendenza e all’unità del Paese. Queste spinte presero ulteriore vigore nel 1796, con la prima campagna napoleonica in Italia.
Le criticità dell’egemonia francese si resero manifeste ancora allora. Napoleone si presentò all’Italia come un liberatore, ma escluse dalla scena politica i democratici più radicali, sostenendo solo i moderati. In questo modo mantenne il controllo delle repubbliche italiane attraverso una vera e propria occupazione militare. La contraddizione della figura di Napoleone emersero in modo più evidente con il trattato di Campoformio e la cessione di Venezia all’Austria (1797). A questo punto anche i patrioti che più lo sostenevano giunsero a porlo in discussione. «Certamente Napoleone non avrebbe mai permesso la formazione di un’Italia indipendente e unita» scrive Vittorio Criscuolo, docente all’Università degli Studi di Milano. Eppure, nonostante le criticità, introdusse un sistema amministrativo e una struttura finanziaria fondamentali per la successiva unificazione del Paese.
La sua figura fu mitizzata dalla letteratura e dalle arti, a partire da quelle figurative, come dimostra il celebre dipinto di Jacque-Louis David, Bonaparte che valica il Gran San Bernardo. La disillusione dei patrioti italiani all’avanzare della campagna napoleonica, però, fu comune a molti intellettuali dell’epoca e si riversò anche nei testi degli autori principali. Fu proprio la presenza in un unico personaggio storico di luci e ombre, soprattutto dall’inizio del suo declino in poi, a concentrare su Napoleone una così forte attenzione letteraria e a imprimerlo nella memoria collettiva.
Manzoni fu fondamentale per la costruzione del mito napoleonico, sia in Italia che all’estero. Il cinque maggio è una delle sue odi più celebri e ha cristallizzato questa figura rendendola indelebile nell’immaginario comune. Il testo venne scritto in pochi giorni del luglio 1821, dopo che giunse a Milano la notizia della morte di Napoleone. Manzoni ritrasse innanzitutto lo sconvolgimento che si prova alla scomparsa dei grandi personaggi storici solo apparentemente incrollabili. Non ne fece un’analisi morale e colse invece l’occasione di questo evento per scrivere una meditazione sul potere e sul declino. Il testo, inizialmente, circolò a Milano solo in forma manoscritta e poi, per non scontrarsi con la censura austriaca, venne stampato a Lugano. L’ode fu accolta con entusiasmo e si diffuse in tutta l’Europa.
Manzoni non volle celebrare il Napoleone politico. Era ben consapevole della contraddittorietà del personaggio: da una parte portatore della speranza di libertà e della spinta all’autonomia, dall’altra despota e sovrano autoritario. Gli riconobbe gli innegabili meriti storici, ma si chiese: «Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza», considerando anche i limiti della sua visione della Francia come potenza egemonica e aggressiva.
Indubbiamente Napoleone segnò la Storia e le sue contraddizioni dipesero dal momento in cui svolse la sua ascesa politica e il suo declino. Come scrisse Manzoni, «due secoli, l’un contro l’altro armato, sommessi a lui si volsero, come aspettando il fato». A cavallo tra ‘700 e ‘800, tra il mondo pre e post Rivoluzione francese, fu sia liberatore che tiranno, sia modernizzatore che despota. Tutte queste contraddizioni sono insite nel mito napoleonico conservatosi fino a oggi.