Questo approfondimento è stato realizzato con il contributo dell’associazione Giovani Palestinesi d’Italia.
Rassegnati è la rubrica settimanale che seleziona un fatto degli ultimi giorni per provare a mostrare com’è stato riportato dalla stampa italiana. Tra strategie comunicative ed errori, viene svelato il filtro che copre ogni notizia. Oggi parliamo dell’apartheid israelo-palestinese e della prospettiva con cui viene raccontata dai media italiani.
Ha fatto molto discutere una recente indagine dell’ONG Human Rights Watch (HRW) dal titolo A Thereshold Crossed (Il limite oltrepassato). Israele viene spesso considerato l’unico Paese democratico del Medio Oriente, eppure recentemente si è tornati a parlare del fatto che da tempo questo Stato mette in atto un regime di apartheid. Con tale termine ci si riferisce a una grave oppressione discriminatoria, considerata un crimine contro l’umanità almeno dal 1998 con lo Statuto di Roma. Nel documento viene infatti definita come «gli atti inumani […] commessi nel contesto di un regime istituzionalizzato di oppressione sistematica e di dominazione da parte di un gruppo razziale su altro o altri gruppi razziale, ed al fine di perpetuare tale regime».
La HRW associa a questa definizione una serie di comportamenti diffusi nello Stato di Israele. Il sistema messo in atto è sbilanciato, dà privilegi maggiori agli israeliani e minori ai palestinesi. Ciò si accompagna a fenomeni come la confisca delle terre, la negazione del diritto di residenza e la sospensione dei diritti civili. Il duplice metro di paragone con cui le disposizioni governative colpiscono palestinesi e israeliani era già stato oggetto di dibattiti alcune settimane fa, in merito alla campagna vaccinale. Infatti, nonostante Israele vanti una somministrazione massiccia di dosi, i dati riportano che il 60% degli israeliti è vaccinato, mentre il numero dei palestinesi coinvolti nella campagna non supera l’1%. La distribuzione disparitaria delle dosi riguarda sia i territori israeliani sia quelli palestinesi (la striscia di Gaza e la Cisgiordania).
Il report della HRW è stato ripreso dai media italiani e di tutto il mondo. L’ANSA decide di considerare fin dal titolo entrambi i punti di vista: «Human Rights Watch, da Israele ‘apartheid su palestinesi’. La replica: ‘Libello propagandistico’». Inoltre nel corpo del testo tutti i riferimenti al governo autoritario israeliano vengono virgolettati e proposti come citazioni dell’analisi della HRW. Questa soluzione viene impiegata per attribuire la responsabilità delle forti critiche verso il governo israeliano unicamente all’ONG.
Dopo averne passato in rassegna i contenuti e aver citato anche le affermazioni del direttore esecutivo della HRW, Kenneth Roth, il nuovo paragrafo si apre con: «Il rapporto di Human Rights Watch “è un libello di propaganda, privo di alcuna credibilità”». Solo dopo aver riportato questa dichiarazione virgolettata se ne specifica il portavoce: il Ministero degli Esteri israeliano. La replica sostiene che i dati riportati sono fittizi e parte di un più vasto tentativo di boicottare le autorità israeliane, facendo riferimento anche alla campagna BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni). La posizione israeliana, così riportata dall’Ansa, risulta almeno in parte avvalorata.
Anche La Repubblica decide di inserire entrambi i punti di vista nel titolo: «La denuncia di Human Rights Watch: “Da Israele apartheid nei confronti dei palestinesi”. La replica: “Opuscolo di propaganda”». L’articolo si apre con una contestualizzazione importante: l’indagine della HRW viene redatta poco dopo che Fatou Bensouda, procuratrice capo della Corte penale internazionale, ha annunciato l’apertura di un’analisi della situazione palestinese per valutare i potenziali crimini di guerra commessi dal governo israeliano dal 2014 a oggi.
La Stampa, invece, distribuisce la notizia su due articoli. Il primo assume la prospettiva della HRW e si apre con il titolo: «Il report che inchioda lo Stato ebraico: “Colpevole di apartheid e persecuzione”». I contenuti dell’analisi sono riportati anche al di fuori delle virgolette e viene data loro una forte credibilità. Si parla di «accusa bruciante» nei confronti di Israele e il termine apartheid è definito «la parola della vergogna». Inoltre nelle prime righe si legge che il testo è stato scritto dall’inviato a Beirut, come a sottolineare la sua consapevolezza maggiore delle tensioni politiche in corso.
Il secondo articolo, invece, si fa portavoce del punto di vista del Paese sotto accusa: «La replica di Israele: “Macché apartheid, il report di HRw è solo propaganda”». Le parole riportate vengono attribuite a Gerald Steinberg, professore di scienze politiche alla Bar-Ilan University. È il fondatore di Monitor, un centro di ricerca finalizzato a far emergere la situazione dei diritti umani nel conflitto arabo-palestinese. Secondo l’articolo Steinberg ha analizzato il report e non lo considera basato su dati attendibili ma sull’ideologia politica.
Una nota significativa: quasi tutti questi articoli sono riservati a chi ha sottoscritto un abbonamento. Di conseguenza, chi vuole approfondire la situazione israelo-palestinese e considerare la presenza di un regime di apartheid, ha a disposizione un numero ristretto di fonti. Tra le piattaforme che mettono a disposizione la notizia gratuitamente c’è EuropaToday. In questo caso la prospettiva presentata come principale (e riportata nel titolo) è quella della HRW. Viene fatto un resoconto del report, sottolineando la richiesta fatta dalla ONG alla Corte penale internazionale di inserire i reati di apartheid e persecuzione nell’indagine da poco avviata (definita antisemita dal primo ministro Benjamin Netanyahu).
Si dà poi spazio anche alla difesa israeliana, il cui governo sostiene che «la minoranza araba del Paese [ma si può parlare di minoranza in questo caso?] gode di pieni diritti civili». La posizione della testata, però, è chiara e viene sottolineata citando le dichiarazioni di Philippe Sands, professore di diritto all’University College di Londra, e Omar Shakir, uno degli autori dell’inchiesta. In entrambi i casi viene data validità allo studio, basato su un’attenta analisi dei dati. L’articolo si conclude con l’appello che l’ONG ha rivolto agli altri Stati: «non “essere complici” della politica israeliana».
In conclusione, la maggior parte degli articoli che hanno affrontato l’accusa di apartheid ha riportato sia la prospettiva della HRW sia quella del governo israeliano. Offrire più punti di vista è positivo per dare una visione globale e favorire il pensiero critico, ma il carattere autoritario e discriminatorio del governo di Israele è noto da tempo. C’era davvero bisogno di gettare il dubbio su un documento che scrive nero su bianco le evidenti violazioni dei diritti umani da parte di Israele a danno dei palestinesi?
L’altro aspetto che fa riflettere è il fatto che l’analisi della HRW arrivi solo ora. È da molto tempo che in Israele vengono praticati crimini contro l’umanità e ci sono state occasioni anche in passato di portare questi fatti all’attenzione internazionale. Sebbene quindi l’ONG non abbia scoperto nulla di nuovo, è significativo il fatto che sia la prima volta che una grande organizzazione per la difesa dei diritti umani accusa apertamente Israele.
Concludiamo allora con una dichiarazione dell’associazione Giovani Palestinesi d’Italia: «È curioso che i giornali citati nell’articolo abbiano avuto fretta e accortezza nel riportare la risposta israeliana in merito al rapporto di Human Rights Watch, ma non la stessa cura nell’approfondire la notizia in sé dell’apartheid che colpisce il popolo palestinese. Prendiamo atto che Human Rights Watch abbia aspettato 43 anni dalla sua fondazione per confermare ciò che attivist* e ricercator* riportano da decenni: è da 73 anni che vige un regime di apartheid in Palestina. Difatti, iniziano ora a sperimentare anche loro le infondate accuse di antisemitismo che subisce chiunque parli di apartheid e occupazione. A partire dalla decisione della Corte Penale Internazionale in merito alla sua giurisdizione ad indagare nei territori della Cisgiordania e di Gaza, alcune organizzazioni umanitarie sembrano aver preso posizione nei confronti delle violazioni dei diritti da parte di Israele. Nonostante il passo in avanti, la narrazione rimane distorta: si parla solo di Cisgiordania e Gaza e non dell’occupazione totale della Palestina fin dalla Nakba, né dell’apartheid dei palestinesi del ’48 (erroneamente chiamati arabi israeliani).
La base di questa narrazione è la mancata volontà di dare voce alle e ai palestinesi sui canali mediatici mainstream. Quando si parla della questione palestinese (anni fa, perché ora si tende a non parlarne) e si instaura un dibattito pubblico, solitamente le parti avversarie sono italiani pro Palestina, israeliani o italiani sionisti. La presenza palestinese quando si parla di Palestina è pressoché pari a zero. Basti pensare al massacro di Piombo fuso del 2008. In quell’anno Gad Lerner invitò a un programma da lui condotto all’epoca chiamato “L’infedele” Manuela Dviri, giornalista italiana naturalizzata israeliana, a commentare un fatto particolare avvenuto durante quel massacro noto come “la strage dei bambini palestinesi”. Se notiamo, si parla di bambini palestinesi senza palestinesi.
La domanda che sorge spontanea è: “perché?”. È accettabile orientare la stampa in base alle scelte politiche e non alla realtà dei fatti? Sarebbe interessante indagare maggiormente sugli interessi che ci sono dietro a questa narrativa e a questo modo di fare giornalismo».