Dal film alla vera storia” è la rubrica mensile di The Pitch – Olympia, che svela retroscena, curiosità, personaggi, fatti reali che caratterizzano e differenziano le trasposizioni cinematografiche delle più belle storie dello sport mondiale. Un excursus tra realtà e fantasia, in cui la prosa del reale diventa poesia della finzione e su cui i maestri del cinema appongono la ciliegina finale, grazie alle magistrali interpretazioni dei protagonisti e la firma d’autore di registi e sceneggiatori.

Con tutto il rispetto che si deve a Jeff Bauman, vittima di un attentato terroristico a cui fortunatamente è sopravvissuto, seppur con gravi lesioni, e la cui vita ha ispirato il film Stronger, questa volta non è lui il nostro protagonista. Scegliamo la sua vicenda come incipit per narrare qualcosa di più grande. Certo, forse meno d’impatto nei cuori della maggior parte delle persone, ma per gli amanti dello sport e soprattutto del running, la storia di Boston e della sua maratona è un po’ come un testo sacro.

Una città completamente in ossequio a questo evento, una popolazione entusiasta ed orgogliosa della sua gara, che ti ferma per strada, nei supermercati e nei locali quando ti vede con la medaglia di finisher al collo e vuole sapere tutto di te: da dove vieni, se è la tua prima maratona, in quanto tempo l’hai conclusa. Il paradiso della corsa, dove gli automobilisti sono quasi una specie in via di estinzione. Un rito collettivo che si ripete ogni anno, a cui tutti vogliono in qualche modo partecipare. Nessuno si sognerebbe di essere arrabbiato perché per una intera giornata le strade della città sono chiuse al traffico, sarebbe da loser, come dicono loro.

Il trailer italiano del film “Stronger“.

Stronger, è un film del 2017 diretto da David Gordon Green e distribuito per l’Italia da 01 Distribution, a partire da luglio 2018. Questa produzione ha preso parte al Toronto Film Festival e al Festival del Cinema di Roma. Narra la storia di Jeff Bauman, una delle vittime dell’attento ordito e messo in atto dai fratelli Tsarnaev alla Boston Marathon del 2013, ed è l’adattamento cinematografico dell’omonima autobiografia scritta a seguito di quel drammatico evento.

Rimasto senza gambe dopo essere stato travolto dall’esplosione che funestò l’arrivo della gara, Jeff viene interpretato sul grande schermo da Jake Gyllenhall e racconta tutto il suo percorso di ritorno alla vita, dopo aver visto la fine molto vicina. La storia che segue l’attentato, così come viene narrata nel libro, è un racconto di coraggio, resilienza e solidarietà, ma senza spunti di particolare interesse, a parte un po’ di folklore “made in USA“. Per questo, gli sceneggiatori scelgono di drammatizzare ulteriormente quanto accade nella vita di Bauman, dopo quell’episodio tragico, discostandosi però da quello che è, per così dire, il testo ufficiale. Decisione comprensibile, ma anche con questo espediente la trama non cattura fino in fondo.

Una pellicola da vedere almeno una volta, per documentarsi o ripassare, ma che poi ci si può tranquillamente lasciare alle spalle. Da segnalare che nel 2016 uscì un film dal titolo Boston, caccia all’uomo, incentrato sul susseguirsi di eventi che portarono alla cattura degli attentatori, in cui Jeff Bauman non viene mai citato, sebbene fosse stato lui a fornire le prime indicazioni alla FBI, dando il via alle indagini.

Quando Jeff si risveglia nel suo letto d’ospedale e realizza di non avere più le gambe, inizia ad elencare nella sua testa le cose che non avrebbe mai più potuto fare. Tra le altre, correre la Maratona di Boston. Aggiungendo, poi, che non sarebbe mai successo. Infatti, il 15 aprile del 2013, quando parte dalla sua casa nei sobborghi di Boston per raggiungere il centro città, dove è situato il traguardo della maratona, lo fa soltanto per vedere la sua fidanzata. Erin è una runner, si è allenata molto e vuole portare a termine la sua prima maratona. Giunto nei pressi del traguardo, Bauman è però indeciso su quale sia la posizione migliore per vedere transitare la sua dolce metà. Mentre cerca un varco per spostarsi in mezzo alla folla, la sua attenzione viene rapita da un ragazzo con un vistoso cappellino bianco, gli occhiali da sole calati sugli occhi ed uno zaino sulle spalle. Lo vede allontanarsi tra la gente, accorgendosi quasi subito che lo zaino di quello strano tipo è rimasto a pochi metri da lui. Non ha nemmeno il tempo di riflettere: l’esplosione polverizza le sue gambe.

Il primo a soccorrerlo è Carlos Arredondo, che pur nella concitazione del momento, trova due lacci di fortuna e frena l’emorragia alle gambe, caricando poi Jeff su una sedia a rotelle e trasportandolo così alla prima ambulanza giunta sul luogo del disastro.

Jeff Bauman e il suo soccorritore Carlos Arredondo, poche settimane dopo l’attentato, fanno il lancio di apertura ad una partita dei Boston Red Sox.

Quella di Jeff Bauman è la storia un uomo ordinario, che prima dell’attentato divide la sua vita tra il lavoro, i Boston Red Sox, la fidanzata e la Playstation e che si ritrova, suo malgrado, a diventare un simbolo di resistenza. Un ruolo che, pian piano, si accorge di non volere, domandosi spesso il perché la gente lo idealizzi, perché veda in lui un eroe. Forse per il bisogno che le persone hanno di anestetizzare la paura che provano, quando si rendono conto che una cosa come quella accaduta a lui, può capitare a tutti. Della serie: meglio a te che a me, sei il mio eroe.

Chi ha subito un trauma del genere è una persona bisognosa di calore umano, quindi non potrà fare a meno di apprezzare tutto l’affetto che la gente riverserà su du lui, anche se non nasconderà di faticare a comprendere fino in fondo il perché di tutto quell’amore per lui. Mentre ancora cerca di metabolizzare tutto quello che gli sta accadendo, ha inizio il suo calvario post-trauma. Sì perché la vita che lo attende, dal giorno in cui lascia l’ospedale, non è più la stessa che aveva quando ci era entrato. Una esistenza fatta di sedie a rotelle, di protesi, di fisioterapia, di dolore e di fatica. Non è pronto ad affrontare tutto questo. Ma d’altro canto, chi lo sarebbe? Non senza qualche uscita di pista lungo il percorso, riuscirà a raggiungere l’obiettivo prefissato: imparare a camminare con le sue nuove gambe entro un anno, nella data esatta in cui si sarebbe tenuta la Boston Marathon 2014.

I due ordigni rudimentali – due pentole a pressione contenenti esplosivo, chiodi e tondini di acciaio – causarono la morte di 3 persone e il ferimento di altre 264. Vennero posizionati a pochi metri dalla linea del traguardo e deflagrarono a pochi secondi di distanza l’uno dall’altro, proprio nel momento in cui transita il maggior numero di partecipanti. In media, un amatore allenato e senza particolari doti da velocista, porta a termine una maratona in circa 4 ore. È proprio poco dopo la quarta ora di gara che lo scempio si compie.

I famigliari degli atleti, ma anche alcuni semplici spettatori, erano assiepati lungo le transenne che delimitano il percorso. Inoltre, la Boston Marathon si svolge sempre nel giorno del Patriots Day in Massachusetts, festa in ricordo della Guerra d’Indipendenza. Tutta Boston si riversa per le strade della città a celebrare questa giornata speciale. Un’usanza che gli organizzatori dell’attentato utilizzarono a proprio favore per cercare di colpire quante più persone possibili.

I due attentatori Tamerlan e Dzokhtar Tsarnaev, musulmani di origine cecena, tentarono invano di sfuggire alla polizia, ma, anche grazie alle indicazioni di Jeff Bauman, dopo soltanto una settimana verranno identificati: il primo resterà ucciso nel conflitto a fuoco con la polizia, il secondo verrà catturato e, dopo essere stato processato, verrà condannato alla pena di morte.

La prima esplosione vista dalla sportcam di una partecipante alla maratona di Boston.

Oggi quasi tutte le città più importanti al mondo hanno la loro maratona, ma nel 1897 Boston fu la prima, che non fosse sede delle Olimpiadi, ad organizzare questa gara. Non è soltanto la maratona più antica al mondo, escludendo quella olimpica, ma una delle manifestazioni sportive in assoluto più antiche. Nel 2021 si dovrebbe disputare, salvo rinvio causato dal Covid-19, la sua 125ª edizione. Ogni anno 35mila persone, provenienti da tutto il mondo, aspirano a tagliare il traguardo di questa corsa, a cui non è facile iscriversi dato che il numero delle richieste è triplo rispetto ai posti disponibili. Inoltre, a differenza della ben più conosciuta, al grande pubblico, maratona di New York che è aperta praticamente a chiunque, la Boston Athletic Association ha regole molto più stringenti per quanto concerne i requisiti richiesti per la partecipazione. Anche per questa ragione è considerata di maggior prestigio, non solo rispetto alla maratona della Grande Mela, che tra l’altro si disputa soltanto dal 1970, ma anche rispetto a tutte le maratone esistenti al mondo. Il suo percorso, che si snoda lungo i 42,195 km che vanno dalla partenza a Hopkinton e terminano in Boylston Street, è di una asprezza non comune per questo tipo di gare, almeno tra quelle che si svolgono nelle grandi città.

Fino al 1972 la Maratona di Boston era preclusa alle donne, considerate fisicamente inadatte a sostenere un simile sforzo. Nel 1967, però, Kathrine Virginia Switzer, che all’epoca aveva 20 anni, si iscrisse registrandosi solo con le sue iniziali: K.V. Switzer. Una pratica usata spesso negli Stati Uniti. La sua iscrizione venne accolta e insieme al fidanzato si mescolò alla folla dei partenti, cercando di camuffarsi il più possibile per sembrare un ragazzo. Dopo pochi chilometri, però, venne scoperta. Alcuni giudici, e persino alcuni partecipanti, tentarono di farla uscire dal percorso, anche con violenti strattoni. Ma Kathrine non demorse, anzi, portò a termine la corsa in 4 ore e 20 minuti.

Il percorso è caratterizzato nella seconda metà di gara da ben quattro asperità, le Newton Hill. L’ultima di queste, la più dura, situata tra il 32° e il 33° chilometro, venne denominata Heartbreak Hill, la collina spacca cuore, a causa dell’episodio accaduto nell’edizione del 1936, quando John Kelley superò proprio in quel tratto il leader della gara Ellison Brown, dando a quest’ultimo una amichevole pacca sulla spalla. Questo gesto fece però arrabbiare Brown, che raccolse tutte le sue forze residue e sopravanzò il rivale proprio nel finale, spezzandogli – così si disse – il cuore.

Nel giorno della maratona i Boston Red Sox giocano sempre in casa. Il rito prevede che si vada prima alla partita di baseball a Fenway Park e poi si scenda in strada per raggiungere il traguardo della maratona: a fare il tifo, il pieno di birra e di hotdog. Una vera festa per tutta la città.

Le immagini di Kathrine Switzer, che nel 1967 corse la maratona fingendosi maschio.

L’Italia conta una sola vittoria, nell’ormai lontano 1990, a firma della medaglia d’oro olimpica Gelindo Bordin. Ogni anno, è foltissima la pattuglia di amatori del nostro Paese, che parte alla volta degli Stati Uniti per prende parte a questa competizione. Anche io nel 2015 ho partecipato alla Boston Marathon, chiudendo col tempo di 4 ore e 12 minuti. Non dimenticherò mai, nonostante la giornata fosse piovosa, quanta gente fosse in attesa di applaudire i finishers in Boylston street. Per immettersi nella retta del traguardo, lunga circa 600 metri, bisogna percorrere una strada in lieve ma costante ascesa, che termina piegando a sinistra. Nel momento esatto in cui ci si immette nel rettilineo finale, il boato del pubblico è simile a quello che si può udire in uno stadio dopo un gol.

Non potrò mai scordare quei momenti. Cercavo di tenere stretto a me ogni istante, ogni singolo fotogramma, nella vana speranza di rallentare il tempo che passava troppo alla svelta, mentre il traguardo si avvicinava facendosi sempre più grande. Avrei voluto che quegli attimi durassero per sempre. Di tanto in tanto, guardo la mia medaglia e le fotografie appese al muro del mio salotto, costatando con soddisfazione come anche il mio nome, benché molto in piccolo, sia scritto nella storia di questa manifestazione leggendaria.