Nonostante l’infiltrazione nell’economia legale, i traffici illeciti – e in particolare quello legato allo spaccio di stupefacenti – rappresentano ancora oggi la fonte primaria di approvvigionamento per le mafie di tutto il mondo.
In questo l’Italia non fa eccezione, con le organizzazioni criminali nostrane che continuano a fondare il proprio potere sui ricavi del traffico di droga. ‘Ndrangheta, Cosa Nostra e Camorra, per quanto inserite nei tessuti economici legali dei propri territori, non intendono – ma soprattutto non possono – fare a meno dei capitali illeciti che le hanno rese grandi.
Ad Aldo Giannuli – al quale mi lega un profondo e sincero rapporto d’amicizia – ho voluto chiedere come hanno fatto le mafie del Belpaese a passare da una dimensione locale (nazionale al massimo) ad essere vere e proprie potenze mondiali. La risposta che mi fornisce è ovvia e brutale: aver venduto ciò che la gente chiedeva, nel momento in cui ne aveva più bisogno.
Il sodalizio tra consorterie criminali e traffico di stupefacenti è fatto relativamente recente. Come ricorda Giannuli durante la nostra chiacchierata le mafie affondano le radici negli anni dell’unità d’Italia, ma è solo nel corso dell’ultimo cinquantennio che queste hanno investito – e guadagnato cifre spropositate – con la droga. Prima – parallelamente ad altri business illeciti come quelli del racket e dei sequestri – gli affari giravano attorno al contrabbando: uno su tutti quello delle bionde, le sigarette d’importazione.
Socialmente accettato – se non addirittura richiesto! – il traffico di bionde attraverso i principali porti nostrani ha per decenni tenuto in piedi un’industria criminale di cui tutti erano a conoscenza, ma che fondamentalmente non infastidiva abbastanza per venire soppressa da parte delle autorità. I soldi però girano eccome, ed i soggetti a tirare i fili di tutto questo commercio sono sempre loro: Cosa Nostra, Camorra e ‘ndrangheta, che dal secondo dopoguerra iniziano così a impostare le rotte dei propri traffici illeciti.
Proprio su queste rotte – e sulla base dei profondi cambiamenti sociali dettati dai movimenti del 77’ – si consuma quel cambiamento che segnerà il definitivo passaggio delle mafie nostrane da fenomeni prettamente italiani a consorzi criminali in grado di agire su scala mondiale: l’eroina sostituisce le sigarette come prodotto di punta del commercio mafioso, invadendo le strade delle città italiane e tagliando le gambe a intere generazioni. È qui che cambia la nostra malavita, e con essa probabilmente anche la storia del Belpaese.
Per descrivermi la portata di questo avvenimento Giannuli rispolvera un ricordo della sua giovinezza, di quando ancora era a Bari a fare attivismo politico. È il 1979, e nel porticciolo turistico del capoluogo pugliese alcuni contrabbandieri di sigarette hanno organizzato un comizio. Protestano contro le autorità, ree di impedirgli di guadagnarsi quel poco che gli serve per vivere, ma soprattutto muovono una significativa minaccia in pubblica piazza: se continueranno i blocchi ai loro traffici, inizieranno a contrabbandare eroina su larga scala. Guardando a quanto accadrà di lì a poco, questa sembra un annuncio più che una minaccia.
Come i colleghi pugliesi anche i contrabbandieri siciliani, napoletani e calabresi decidono di abbandonare il commercio delle bionde per abbracciare lo smercio di eroina, ben più remunerativo. Come detto, alla base di tutto ciò vi è una studiata decisione da parte delle mafie di aggredire un mercato in espansione, caratterizzato da una forte domanda giovanile. Una scelta che le proietta su scala globale, garantendo loro entrate solo pochi anni prima inimmaginabili.
In queste prime fasi, a cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta, lo stato dal canto suo non sembra avvertire come un’urgenza la lotta all’eroina. Se da un lato non viene percepita la portata del fenomeno – che è insieme criminale e culturale – dall’altro questo viene consapevolmente sottovalutato per ragioni politiche: come mi conferma Giannuli raccontandomi della fine di molti suoi compagni di lotte sindacali, l’eroina ha avuto la forza di spaccare in due i movimenti sociali di quegli anni e ha evitato che molti di quegli attivisti andassero a rimpinguare le fila dei gruppi extraparlamentari più violenti.
Una scelta più o meno consapevole quella dei governi italiani, che tuttavia ha conseguenze materiali dalla portata impressionante: sono migliaia i giovani e le giovani che perdono la vita a causa di overdose da eroina, e altrettanti coloro che contraggono l’HIV a causa dello scambio di siringhe. Intere generazioni crescono e appassiscono sotto i colpi della droga.
A metà degli anni Ottanta la situazione raggiunge livelli insostenibili: l’opinione pubblica è colpita dalle schiere di morti causati dall’eroina e lo stato decide di intervenire mettendo in campo le armi della repressione. Le mafie, dal canto loro, come spesso accade giocano d’anticipo e decidono di focalizzare i propri traffici attorno alla produzione e al consumo di un’altra sostanza, dagli effetti sociali meno evidenti ma dalla rendita ancora più assicurata: la cocaina.
Abbassandole considerevolmente il prezzo al pubblico, le mafie riversano tonnellate di polvere bianca su generazioni ben più portate rispetto a quelle precedenti a questo tipo di droga. Si tratta infatti di una sostanza dagli effetti più contenuti rispetto all’eroina, meno condannabile da un punto di vista morale e in piena linea con i mutamenti sociali in atto in quel periodo.
Dopo anni di violenti conflitti politici i giovani tendono infatti a privilegiare una condotta di vita più libera e spensierata, dionisiaca dice Giannuli, che combinano con un approccio al mondo del lavoro nel solco del mito del sogno americano: sono gli anni degli yuppies e dei weekenders, e le mafie sanno che la cocaina è – e sarà per molto tempo – la droga del momento.
I guadagni, dato anche il minore impatto fisico sui consumatori, decuplicano e legano ancor di più le mafie con altre realtà criminali in giro per il mondo. Per i decenni a venire, anche quando le nostre organizzazioni perderanno il primato nella gestione del narcotraffico, il commercio di sostanze stupefacenti rappresenterà comunque una fonte di reddito incredibile, su cui fonderanno il proprio potere economico ed il conseguente controllo sociale.
Dai tempi del contrabbando di sigarette, al traffico di eroina e poi di cocaina, lo stato italiano ha continuato imperterrito a proporre la stessa soluzione: un’infruttuosa miscela di proibizionismo e repressione che denota un’incomprensione cronica dei mutamenti culturali del proprio popolo, e un’incapacità a mettere in atto strumenti in grado di prevenire – più che reprimere – il problema del traffico e del consumo di droga.
Sconsolato chiedo a Giannuli quale pensa possa essere l’alternativa per il futuro, dal momento che alla cocaina si sono affiancate altre sostanze e che l’uso di stupefacenti rimane un fenomeno di massa, oggi forse ancora più di ieri. Altrettanto sconsolato mi risponde che la soluzione ci sarebbe: monopolizzare produzione e distribuzione, ancora prima di legalizzare il consumo, per privare le mafie della loro principale fonte di potere. Tuttavia, aggiunge, mancano i presupposti politici per attuare un simile programma.
Le mafie si sono arricchite drogando intere generazioni di italiani, influenzando la storia e la società di questo paese. Se quelle passate e presenti non hanno avuto la capacità – e la volontà – di comprendere e intervenire su un fenomeno che è insieme criminale e sociale, sta alle generazioni future invertire la rotta. Serve capire che prevenire è meglio di reprimere – e di curare – ed è indispensabile per recidere il problema delle mafie, più che della droga, alla radice.