Nonostante nel 2020 il mondo intero è parso fermarsi sotto i colpi di una nuova pandemia, in realtà quasi ogni tipo di attività, a diversi livelli ed a seconda della quantità di denaro interessato, ha provato ad andare avanti in una condizione di semi-normalità.
Uno degli esempi più lampanti è di sicuro arrivato dalla NBA e dalla “bolla” creata a Disney World, un tentativo disperato di non bruciare un ammontare di investimenti che sfiorava i due miliardi di dollari.
L’NBA apre alla marijuana
È forse proprio a causa delle difficili condizioni psicofisiche nelle quali un po’ tutti ci siamo ritrovati, professionisti del canestro inclusi, che prima dell’inizio della nuova stagione la NBA ha concluso un discorso che era rimasto in stallo forse per troppo tempo. Per la stagione 2020/2021 i giocatori potranno fumare marijuana senza essere testati, se non in casi particolari.
Un dibattito tornato al centro dell’agenda della lega americana di basket, dopo che all’inizio della stagione 2019/2020, Dion Waiters, la guardia dei Miami Heat, era stato sospeso per 10 partite e multato per 2 milioni di dollari, dopo aver avuto un attacco di panico per aver ingerito un‘enorme quantità di “orsetti” gommosi contenenti THC.
La scelta della NBA è stata sicuramente facilitata dalla recente apertura degli Stati Uniti verso i consumatori di marijuana (e dai numerosi giocatori trovati positivi dopo gli ultimi test, circa il 10% del totale), ma comunque un piccolo spartiacque nel mondo dello sport professionistico, che col passare dei decenni non è mai riuscito a delineare una netta differenza tra droghe e sostanze dopanti.
Prendendo la palla al balzo – è il caso di dirlo – anche la WADA, l’Agenzia Mondiale Antidoping, ha drasticamente ridotto le pene inerenti le “sostanze d’abuso”. Fino a qualche mese fa gli atleti trovati positivi a cocaina, eroina, MDMA o cannabinoidi rischiavano da due a quattro anni di squalifica, a seconda della prossimità alle gare.
Le nuove indicazioni sulle “sostanze d’abuso”
Dal 1 gennaio 2021 invece «se l’atleta può stabilire che qualsiasi ingestione o uso è avvenuto fuori competizione, e non correlato alla prestazione sportiva, il periodo di squalifica sarà di tre mesi. Inoltre, il periodo di squalifica può essere ridotto a un mese se l’atleta completa in modo soddisfacente un programma di trattamento della sostanza di abuso approvato dall’organizzazione antidoping».
L’interesse principale della WADA ovviamente è quello di preservare l’integrità delle competizioni. Ma a differenza di altre sostanze, come gli anabolizzanti, queste droghe non si possono più considerare come mezzi per alterare positivamente le prestazioni di un atleta.
La decisione dell’Agenzia è arrivata in seguito anche alla presa di coscienza che molte di queste sostanze vengono consumate regolarmente nei più svariati contesti sociali.
Al momento la WADA ha stabilito le concentrazioni massime di presenza nel sangue per cocaina e tetraidrocannabinolo, mentre per MDMA ed eroina bisognerà aspettare nuove documentazioni.
Importante è anche la modifica del lasso di tempo che viene ritenuto In-Competition, cioè il periodo nel quale l’atleta viene effettivamente considerato partecipante a una gara, che inizia alle 23:59 del giorno precedente all’evento e si conclude dopo la fine della gara, con la raccolta del campione per il test antidoping.
Guardare il passato per migliorare il futuro
Ora potremmo iniziare il solito discorso proiettato all’indietro, rammaricandoci di tutte le carriere bruciate a causa di test risultati positivi. La lista sarebbe lunghissima e piena di nomi altisonanti. Atleti di ogni genere che in diversi momenti delle loro carriere sono stati squalificati per anni o addirittura a vita, subendo anche le ripercussioni sociali pubbliche di un comportamento che oggi, finalmente, comincia a essere visto come qualcosa di personale, che rientra nella sfera privata di ogni individuo.
Ma cosa ne ricaveremmo? Forse una sorta di riscatto morale per questi sportivi, o il fatto di percepirli non più come ‘scorretti’ ma, al massimo, ‘viziati’.
Un primo passaggio concreto sarebbe quello di rivedere alcune delle assurde squalifiche che, ancora oggi, colpiscono molti ex-atleti. Come nel caso – iconico – di Francesco Flachi in Italia, che nel gennaio 2022 finirà di scontare una squalifica ricevuta nel 2010 per positività alla cocaina.
Flachi aveva 35 anni, giocava con il Brescia in serie B e a causa della sua recidività (era la seconda volta che risultava positivo) rischiò di essere radiato.
Ancora oggi l’ex attaccante fiorentino è interdetto dagli stadi e dalle panchine a bordo campo: un trattamento ben peggiore di quello riservato a molti di quei ‘tifosi‘ vincitori di un Daspo, che nella sua versione classica prevede un massimo di cinque anni di durata.
Distinguere è necessario per comprendere
Bisogna allora iniziare a ragionare sul limite tra vita privata e professionale e sull’evoluzione che lo sport e la società hanno avuto negli ultimi decenni. Tutto questo in accordo non solo con gli organi sportivi, ma anche con quelli civili.
Alcune droghe, galleggiando nel limbo della semi-illegalità, sono quasi del tutto prive di studi sugli effetti che provocano sul corpo e sulle prestazioni oltre che di normative atte a regolarne i consumi. Di conseguenza vengono ancora confuse con sostanze dopanti che vanno effettivamente a incrementare la resa fisica degli atleti.
Purtroppo, le conseguenze di questo approccio non intaccano solo la carriera e la credibilità di un atleta, ma anche lo stato di salute psicofisico dell’individuo. Finché molti tabù riguardanti le droghe non verranno abbattuti e non si concluderà l’era buia del proibizionismo, potremmo trovarci ancora di fronte a sportivi giudicati disonesti e tossicodipendenti, minando quegli spazi personali nei quali la società dovrebbe contenere le incursioni e limitando, probabilmente, le possibilità di un effettivo percorso di recupero.
Non saper distinguere tra uso e abuso e tra droga e doping ha come unica conseguenza quella di creare confusione e generalizzazione, rendendo a volte impossibile capire come agire per salvaguardare la correttezza della disciplina sportiva e, soprattutto, la salute di tutti gli atleti che ne fanno parte.