Giuseppe Pitrè, medico siciliano, è considerato il fondatore delle scienze demoetnoantropologiche, la via italiana all’antropologia. Dà dignità scientifica agli studi sulle tradizioni popolari e ridefinisce il concetto di cultura. Insieme agli autori del verismo, contribuisce a costruire l’immagine della Sicilia ancora prevalente nel discorso pubblico.
L’antropologia è una scienza relativamente recente, nasce nella seconda metà dell’Ottocento. In Italia, le scienze sociali hanno faticato molto ad affermarsi come discipline autonome e, a tutt’oggi, cosa faccia l’antropologo non è del tutto chiaro. Ad aumentare la nebbia contribuisce tutta quella costellazione di termini come etnologia, etnografia, antropologia sociale, antropologia culturale, demologia, studio delle tradizioni popolari, che designano le discipline che si sono date come obiettivo lo studio di quell’impalpabile oggetto che è la cultura. E dire questo poco risolve, perché cosa sia la cultura non è per niente ovvio.
Dicevamo, l’antropologia nasce nell’Ottocento, quando il vento positivista soffia su ogni espressione dell’uomo: si cerca di conoscere, scandagliare, sistematizzare. Il progetto del sapere antropologico si plasma sulla scorta delle conquiste coloniali, dall’incontro con culture diverse, ed ha profondamente a che fare con una definizione dell’alterità. Prende forma quando i ceti dominanti dell’Europa moderna diventano consapevoli della propria modernità e arrivano a percepirsi come l’avanguardia di un processo di sviluppo che non procede in modo uniforme: c’è chi è rimasto indietro. I popoli extraeuropei, ad esempio, che vengono studiati come fossili di stadi evolutivi precedenti.
L’Italia ha una storia a sé. Fanalino di coda della corsa coloniale, l’Italia scopre l’alterità, il non-moderno, in casa, guardando a quel mondo contadino che la modernità di lì a poco avrebbe spazzato via. La via italiana allo sviluppo degli studi antropologici passa per la Sicilia, per un medico appassionato di fiabe, filastrocche e proverbi: Giuseppe Pitrè.
La biblioteca delle tradizioni popolari
Giuseppe Pitrè nasce a Palermo nel 1841, nel quartiere portuale di Borgo, da una famiglia povera. Il padre era un marinaio, morto prematuramente di febbre gialla durante un viaggio in America. Nonostante le ristrettezze economiche, la madre riesce a fargli avere un’ottima istruzione: frequenta gli studi classici e si iscrive alla facoltà di medicina. Comincia così la sua avventura, non solo come medico, ma come collezionatore di favole.
Pitrè era un outsider, un personaggio eccentrico. La passione per la materia popolare veniva dalla madre, antologia vivente di canti, sua prima grande informatrice. La professione di medico portò Pitrè a frequentare famiglie povere, soprattutto contadini. Dopo la visita, chiedeva di essere ricompensato con delle storie. Raccoglie aneddoti, proverbi, nenie, filastrocche e canti popolari, indovinelli, formule contro il malocchio, pratiche terapeutiche, scongiuri, scaramanzie, superstizioni. E cunti, soprattutto. Trascrive le varianti linguistiche e segna il nome di chi narra. Fin dai primissimi anni di pratica medica comincia a comporre una sua piccola enciclopedia, per raccogliere e conservare il maggior numero di dati. Informazioni quasi sempre esclusivamente orali, che rischiavano di essere perdute.
Dal 1871 comincia a sistematizzare queste informazioni in una monumentale opera, distribuita in venticinque volumi: la Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane. Di questa collezione fanno parte i quattro volumi di Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani, editi nel 1875, dove Pitrè raccoglie più di trecento cunti. Un numero enorme, se si pensa che i profeti del romanticismo letterario tedesco, i fratelli Grimm, ne avevano pubblicate circa 200, mentre Hans Christian Andersen 156. Pitrè aveva messo insieme il più ricco repertorio di fiabe mai pubblicato in Europa.
Pitrè e il Verismo
La prima edizione delle Fiabe ebbe presto riconoscimenti internazionali, ma a Palermo fu accolta con scandalo e disprezzo. La Gazzetta di Palermo accusava Pitrè di «aver pubblicato delle porcherie» e rispettabili clienti gli chiedevano sconvolti «cosa gli fosse saltato in mente di scrivere pagine tanto imbarazzanti». Pitrè aveva preventivamente epurato i racconti dalle parti più scabrose, ma non era il contenuto il problema. Ciò che era scandaloso era che un esimio dottore si occupasse di una materia così bassa. Questo suo strano interesse per le tradizioni popolari umiliava la sua figura professionale. Fu difficile convincere le persone colte del valore scientifico dell’opera di Pitrè: nessuno avrebbe mai pensato che ci fosse qualcosa da studiare nelle grezze espressioni del popolo.
Incompreso dalla colta borghesia provinciale, Pitrè fu invece fondamentale per lo sviluppo della nuova narrativa verista, che proprio in quegli anni stava sviluppando una scrittura attenta alla condizione umana più disagiata. Luigi Capuana trova ispirazione per le sue fiabe per bambini, Giovanni Verga ha i libri di Pitrè nella sua biblioteca e si serve dei suoi repertori di proverbi per scrivere i Malavoglia.
Così scriveva Capuana ne L’Isola del sole. Capuana fu uno dei corrispondenti di Pitrè e trovò negli studi etnoantropologici materia utile per realizzare la sua poetica.
Una nuova scienza
Pitrè aveva iniziato la sua attività di raccolta di materiale tradizionale sostenuto da una romantica passione per un patrimonio culturale che rischiava di esser dimenticato. Nel tempo, però, comincia a introdurre nel suo lavoro quegli strumenti metodologici che si stavano affinando in Europa nel campo della neonata sociologia, dell’antropologia, dell’etnologia e della mitologia comparata. Studia i principali indirizzi di ricerca europei, diventa corrispondente dei maggiori studiosi del mondo. Non si limita più alla sola raccolta di materiale, ma affianca alla trascrizione delle testimonianze uno studio critico, per restituire il valore storico e sociale. Costruisce un metodo, inventa una disciplina.
L’oggetto di questa nuova disciplina sono i fenomeni della cultura popolare. «La storia degli umili, dei dimenticati, dei senza nome. Di agricoltori, pastori, operai. Dei bambini. La storia del popolo, la storia minore che c’è sempre stata, ma sempre all’ombra della Storia con la S maiuscola». Pitrè desidera dare a questa storia lo statuto di scienza, non subordinata alla storia, né alla filologia né ad alcuna altra disciplina. Riconosce che la cultura è un oggetto di studio complesso e a sé stante. Struttura un metodo scientifico per lo studio dei fenomeni popolari, con un obiettivo preciso: documentare la vicenda umana della Sicilia, raccogliendo testimonianze giorno dopo giorno, organizzandole criticamente e costruendo interpretazioni.
Il valore del lavoro di Pitrè comincia ad essere riconosciuto dalle istituzioni italiane dopo più di vent’anni dalle prime pubblicazioni. Nel 1910 gli viene assegnata una cattedra all’Università di Palermo, istituita appositamente per la diffusione di questa nuova scienza.
La Demopsicologia
Pitrè si pone il problema di come chiamare questa nuova disciplina. Scarta il termine demologia, per il suo riferirsi al popolo in modo generico; scarta anche il termine folklore, per orrore verso i termini stranieri. Sceglie demopsicologia e la definisce come quella scienza «che studia la vita morale e materiale dei popoli civili, dei non civili e dei selvaggi». In questa definizione afferma il concetto antropologico di cultura, secondo il quale tutti gli uomini sono produttori e fruitori di cultura per il solo fatto di vivere in contesti sociali, a prescindere dal livello di presunto progresso raggiunto.
Secondo Pitrè la cultura di una regione, o di una nazione, risiede nelle classi popolari. Gli studi dei modi di vita e delle credenze, di «quello che il popolo dice e fa» – per usare le sue parole – illuminano la psicologia popolare. La parola “psicologia” nel nome della disciplina centra un punto importante rispetto allo sguardo di Pitrè sulla materia popolare: l’interesse verso tutte quelle espressioni legate al pensiero, alla memoria, al linguaggio, alle emozioni.
Tradizioni popolari e Unità d’Italia
Il lavoro sulle tradizioni popolari è da mettere in relazione ai processi di nation building nella neo unificata Italia, rispetto alla quale c’è una rivendicazione di autonomia e al tempo stesso un desiderio di integrazione nel nuovo spazio nazionale. Pitrè aveva partecipato appena diciannovenne all’impresa garibaldina e opera negli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia, quando il tema dell’identità nazionale si impone con assoluta urgenza. Pubblicare le testimonianze delle tradizioni della Sicilia significava farle uscire dai propri confini geografici e metterle in dialogo con altre manifestazioni di cultura popolare nel resto d’Italia. Era un modo per stabilire un rapporto fra storia locale e storia nazionale.
La cultura popolare aveva assunto una valenza assolutamente politica, dal momento che nell’ Italia da poco compiuta la Sicilia era già un’emergenza. E’ del 1876 la famosa inchiesta condotta dai deputati Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, per indagare le radici storico-sociali della violenza diffusa e della mafia.
La mafia non esiste
Pitrè porta un contributo al dibattito sulla mafia molto controverso. Riconduce la mafia sia a caratteri tipici dell’ethos siciliano, dando forma e legittimità a uno stereotipo destinato ad avere grande successo. Nel suo testo del 1889 Usi e costumi, usanze e pregiudizi del popolo siciliano scrive: «La mafia non è setta né associazione, non ha regolamenti né statuti. Il mafioso non è un ladro, non è un malandrino». La mafia, secondo Pitrè, non sarebbe altro che «l’esagerato concetto della forza individuale, unica e sola arbitra di ogni contrasto, di ogni urto di interesse e di idee: donde la insofferenza della superiorità e peggio ancora della prepotenza altrui». Non un’ associazione criminale, quindi, ma siculo orgoglio, coraggio e resistenza ai soprusi.
La mafia non sarebbe altro che l’esagerazione di qualità fondamentalmente positive dei siciliani. Pitrè denunciava che «non si parlasse della Sicilia senza parlare di mafia», come se mafia e Sicilia fossero la stessa cosa. Questo era un chiaro segno di discriminazione, che mostrava come la Sicilia fosse «sempre stata la cenerentola delle fortunate sorelle del Continente». Pitrè “culturalizza” il fenomeno mafia nascondendone la dimensione politica e criminale. Offre terreno fertile per posizioni giustificazioniste, ma è al tempo stesso espressione di una volontà di difendere la Sicilia dagli stereotipi negativi che su di essa proiettava il Continente.
Questa interpretazione è stata citata spessissimo dagli avvocati difensori di mafiosi e da mafiosi stessi. Ha alimentato quell’atteggiamento intellettuale definito sicilianismo, che voleva difendere la Sicilia e i siciliani dalla criminalizzazione a cui erano sottoposti dall’opinione pubblica nazionale. Per i sicilianisti la mafia era solamente una sorta di modifica del carattere degli isolani, prodottasi nel corso dei secoli a causa delle varie dominazioni a cui fu soggetta la Sicilia. Anche Luigi Capuana era allineato a questo pensiero: la mafia era solo il frutto dei malevoli pregiudizi dei continentali.
Verso un nuovo concetto di cultura
Pitrè e Capuana, nonostante propositi scientifici e poetica della verità, dimostrano di non capire a fondo il fenomeno mafioso, restando arroccati su un racconto idealizzato della Sicilia. Questo è uno dei limiti del lavoro di Pitrè: usare la descrizione di tratti culturale per costruire un’identità essenziale. In Pitrè troviamo quell’atteggiamento ambivalente verso il popolo tipico dell’Ottocento: da una parte si condanna l’arretratezza e l’ignoranza, dall’altra si esalta con nostalgia un’arcadica autenticità perduta. Non sfugge, inoltre, Pitrè all’altro vizio della sua epoca: l’evoluzionismo culturale. Nel suo pensiero, primitivo si contrappone a moderno, così come popolare a colto.
Il concetto di cultura diventerà negli anni sempre più complesso, ed è tuttora oggetto problematico di dibattito.
Sulle opere di Pitrè si è costruita – nel bene e nel male – quella che oggi viene comunemente percepita come l’identità della Sicilia, con i pupi, i carretti, le leggende, i proverbi e le tradizioni orali. La letteratura verista e le ricerche etnoantropologiche di fine Ottocento hanno costruito una fiera, ammirata sicilianità, in costante tensione dialettica con tutto ciò che si estende al di fuori dall’Isola. Hanno definito i tratti di quella narrazione potente e stilizzata, che sclerotizza l’immagine di una Sicilia a volte lirica, a volte ferma nel tempo. La stessa che ritroviamo in tanta narrativa del Novecento, nei film, nelle fiction televisive o nel discorso pubblico ancora oggi.