Quando pensiamo al rapporto tra Sicilia e Cinema vediamo di fronte a noi immagini definite e una sostanziale compenetrazione tra individuo e paesaggio, perché le due cose è difficile considerarle in una cesura netta. Questo accade anche se spesso la Sicilia ci viene venduta come un’entità turistica di tipo liceale con greci, mori e normanni a farla da padroni nel raccontarci di un lungo viaggio della storia dei popoli in un’unica terra. Da una parte l’indole dell’insulano di Sicilia ha dalla sua l’indolenza che è tipica dei luoghi segnati dal calore. Un calore climatico più che antropologico. Eppure se osserviamo non tanto i cinefili, quanto gli spettatori distratti di cinema, ci rendiamo conto che questi ragionano in termini cinematografici di una Sicilia “umana” più che paesaggistica. Alla ruralità della saga de Il Padrino prediligono i motti dei suoi personaggi. Don Vito Corleone o Michael sono impressi nella nostra testa più dei luoghi newyorkesi e siciliani in cui la storia prende piede, anche se questi hanno una rilevanza importante. O ancora la caratura elegante di Burt Lancaster ne Il gattopardo, o la fulgida bellezza di Claudia Cardinale, o le massime che scaturiscono dal romanzo di Tomasi di Lampedusa rimangono dominanti. Raramente si fa riferimento al ricco immaginario cromatico di quel lungometraggio. Lo stesso può valere per l’irruenza selvaggia di Salvatore di Giuliano nel film omonimo di Francesco Rosi, uno dei più grandi capolavori della storia d’Italia. Il nostro sguardo però si posa egualmente su un protagonista siciliano che non è l’uomo, anche laddove questo sembra protagonista. Penso spesso al cinema del documentarista e antropologo Vittorio De Seta per indicare questa tesi, perché nei suoi documentari gli uomini sono protagonisti soltanto nella misura in cui sposano il paesaggio e con esso si fondono: le tonnare, i mari, la terra. In Sicilia come in Calabria. Non vi è nulla di astratto nel considerare ciò. Certo, ogni regista è a suo modo intellettuale e antropologo.
La terra è anche protagonista della citata saga del padrino, in tutti e tre gli episodi. Brucia la terra si intitola una canzone che il figlio di Michael Corleone dedica al padre nel terzo e ultimo capitolo della saga, ben distanziato dai primi due e quasi certamente a sé stante per innumerevoli motivazioni. Michael stesso morirà in Sicilia. E come dimenticare d’altronde il matrimonio e poi la morte di Apollonia, nel primo episodio? Due fatti che si concatenano irrimediabilmente alla “terra”, che invece ne Il Padrino – parte II si lega maggiormente a un “passato passato”, cioè a Don Vito Corleone giovane.
Non solo. I paesaggi rurali, anche se non sono esaltati da Coppola, danno sempre una dimensione storica e passatista alla saga. In tutti e tre gli episodi, specialmente il primo e il terzo, la Sicilia rurale è coprotagonista della saga, quasi quanto i grattacieli di Nuova York. Lo stesso sguardo un po’ naturalista e un po’ verista si posa sulla Sicilia rusticana e violentissima di Salvatore Giuliano. Qui a fare la voce grossa è anche e soprattutto Gianni Di Venanzo, un grande fuoriclasse nel mestiere di direttore della fotografia che calibrò diversi usi del bianco-nero per differenti livelli narrativi.
Uno spunto antropologico sulla Sicilia che fu attraverso il paesaggio ce la dà anche Samuel Fuller in Il grande uno rosso, capolavoro bellico dalle numerose sfaccettature. Ma è in realtà un veicolo per parlare di un episodio lirico che si intreccia con la grande storia della Seconda guerra mondiale e delle truppe americane sbarcate nell’isola.
Vi è da dividere poi un certo “paesaggismo” siciliano anche per cromie.
Stromboli terra di Dio, il capolavoro siciliano di Rossellini fotografato in bianco-nero da Otello Martelli, ci dà un rimando estetico diverso da Il Gattopardo, il capolavoro siciliano di Visconti fotografato a colori dall’appena scomparso Giuseppe Rotunno (per molti il più grande tra i direttori della fotografia a colori). Il primo esalta l’asperità dell’isola e sembra alludere parimenti all’asperità anche della situazione che si viene a creare, una certa difficoltà nel comprendersi. Un film rosselliniano che sembra quasi scritto da Antonioni, e non è un caso che alcune scene de L’Avventura, specialmente nel suo incipit, possano ricordarlo.
Nel secondo il paesaggio non è solo natura ma, per motivi del tutto evidenti, anche e soprattutto storia. Nonostante si tenda dimenticarlo, Il Gattopardo è un film (parlo ora del lungometraggio più che del romanzo) che dice della nascita di una nazione e pertanto è un film storico, anche se carico di una drammaturgia che si muove insieme ai personaggi. Un paesaggio che è soprattutto baronato del Meridione, Ottocento inoltrato, decadentismo. Un paesaggio borbonico dove i Borbone diventano marionetta di un epilogo drammatico e ridicolo, ma egualmente fascinoso. Quasi come se la sua tensione lirica fosse quella di un western non all’italiana, ma italiano.