A cura di Corrado Montagnoli
In pochi ricordano che anche l’Italia ebbe un minuscolo dominio in Cina. Qual era il contesto storico della Cina del XIX secolo? Come si svolsero i primi rapporti diplomatici tra Regno d’Italia e Celeste Impero? Perché l’Italia prese parte alla Guerra dei Boxer e come ottenne la concessione di Tianjin?
Il ricordo del passato coloniale italiano in Africa è spesso nebuloso. Che dire dell’esperienza in Estremo Oriente? Forse in pochi sanno che il Regno d’Italia, tra il 1902 e il 1947, ha posseduto un minuscolo dominio in Cina. La Concessione di Tianjin (o spesso Tien Tsin), frazione della città situata non lontano da Pechino, fu il primo e unico possedimento italiano nelle terre orientali. Tianjin rappresentava l’ostinata volontà della classe dirigente italiana di voler essere considerata al pari delle altre grandi potenze.
In questa prima parte, ripercorreremo gli eventi della storia cinese e le azioni diplomatiche che portarono alla creazione di un piccolo angolo d’Italia nella parte opposta del globo.
Un insediamento sul fiume Hai He: alle origini di Tianjin
L’area dove sorge l’attuale Tianjin, non lontana da Pechino, era un appezzamento di terreno acquitrinoso e scarsamente popolato, attraversato dal fume Hai He. Durante la dinastia Song (960-1126 d.C.) erano presenti due insediamenti: Sanchakou, costruita sulla riva occidentale del fiume, e Zhigu, edificata su un’altura alla confluenza dei fiumi Ziya e Hai He. Tra i due, il secondo insediamento ebbe più fortuna, inglobando il primo e divenendo punto di stoccaggio e distribuzione di prodotti alimentari, destinati al trasporto fluviale. Durante il dominio della dinastia mongola Yuan (1271-1368), Zhigu ampliò le strutture portuali e divenne importante produttrice di sale, con la costruzione di saline lungo le sponde del fiume Hai He.
Tianjin: il “Guado Celeste”
La storia vera e propria di Tianjin iniziò durante la dinastia Ming (1368-1644), quando la capitale del Celeste Impero venne spostata da Nanchino a Pechino. Nel 1404, per volontà dell’Imperatore Yongle, Zhigu divenne sede di una guarnigione e prese il nome di Tianjinwei, “Difesa del Guado Celeste”, poi abbreviato in Tianjin: “Guado celeste”. Come suggerisce il nome, la città fu da sempre considerata il porto naturale di Pechino, porta d’accesso fluviale alla capitale. Posta al capolinea settentrionale del Gran Canale di Cina, una rete fluviale artificiale che collega Pechino al Fiume Giallo e al Fiume Azzurro, Tianjin divenne il principale centro economico settentrionale del paese. Qui approdarono, a metà Seicento, stupefatti mercanti olandesi, colpiti dalla grandiosità della città, dai suoi templi e dalla portata commerciale dell’area. Tuttavia, fu proprio l’arrivo degli europei a segnare l’inizio del declino di Tianjin.
L’apogeo di Tianjin e della dinastia Qing
Sotto la dinastia di etnia mancese Qing (1636-1912), alla fine del Settecento la Cina raggiunse il più alto livello di sviluppo economico e civile, in concomitanza con la massima espansione militare. La situazione peggiorò drasticamente in pochi decenni: problemi demografici, diffusa corruzione governativa, fallimentari operazioni militari in Indocina e la minacciosa avanzata europea ai confini imperiali, portarono il paese ad entrare in una fase involutiva, che l’Imperatore cercò di arginare isolando politicamente ed economicamente la Cina dal mondo esterno. Nessuno era autorizzato ad importare merci dall’estero. Mentre nel corso del Settecento l’Imperatore aveva avuto la capacità di resistere alle pressanti richieste commerciali europee, all’inizio dell’Ottocento, la situazione di crisi permise alla Gran Bretagna di intrufolarsi subdolamente nel mercato cinese.
La Prima Guerra dell’Oppio
La Cina era un paese produttivamente autosufficiente, l’unica eccezione era l’oppio, coltivato in India e utilizzato legalmente a scopo medico. Gli inglesi, che avevano il monopolio del prodotto, inondarono il mercato cinese con oppio di contrabbando, svalutando la moneta locale, drenando le riserve d’argento imperiali e diffondendo la tossicodipendenza. A nulla valsero gli editti imperiali, che cercarono di tamponare la diffusione della droga: si arrivò così allo scontro militare. Nel 1839 a Canton, casse di oppio inglese vennero sequestrate e rovesciate in mare. La flotta armata della Gran Bretagna rispose aprendo il fuoco sulla città: iniziava la Prima Guerra dell’Oppio, che si concluse nel 1842 con l’occupazione di numerose città costiere cinesi.
I Trattati Ineguali e le concessioni
Con la firma del primo dei così detti “Trattati Ineguali”, la Cina fu costretta a cedere al Regno Unito cinque città portuali, tra cui Shangai e l’isola su cui poi sarebbe stata costruita Hong Kong. Tutti i porti imperiali divennero “porti franchi”, aperti al commercio internazionale. Si formarono anche le prime “concessioni”, ovvero quartieri abitati da stranieri in territorio cinese ma non soggetti all’autorità imperiale. La prima concessione fu a Shangai, accordata al console britannico, a cui seguirono altre accordate ai francesi e agli statunitensi.
Spesso, le concessioni europee in Cina venivano chiamate “colonie” ma il termine non sarebbe corretto. Secondo le definizioni del diritto internazionale del tempo, le concessioni erano piccoli territori ceduti perpetuamente agli stranieri per essere abitati, in molti casi dietro pagamento di un canone annuo. Formalmente, dunque, la proprietà del terreno restava sempre nelle mani del governo cinese.
La Rivolta Taiping
La creazione delle concessioni non fece altro che destabilizzare ulteriormente la Cina. Nel 1850 scoppiò la violenta rivolta dei Taiping, società anti-mancese, che pur presentandosi come progressista e aperta all’occidente, mirava alla restaurazione della dinastia di etnia cinese Ming. La rivolta degenerò in guerra civile e la Cina si spaccò in due: l’Imperatore si asserragliò nel nord del Paese, resistendo per 14 anni agli assalti dei Taiping, stabiliti a sud intorno alla loro capitale Nanchino.
La Seconda Guerra dell’Oppio
L’odio per gli stranieri si acuì. A seguito di alcuni disordini, che portarono alla morte di un missionario francese, nel 1856 scoppiò una Seconda Guerra dell’Oppio, orchestrata da Londra e Parigi. Nel 1860, mentre l’Italia procedeva all’unificazione, furono firmati ulteriori “Trattati ineguali”: ora gli europei potevano commerciare liberamente non solo sulle coste ma anche nell’entroterra. Poco dopo, nel 1864 anche la Rivolta Taiping si concluse, in parte grazie all’intervento europeo: la Cina parve tornare ad un periodo di pace. Purtroppo la situazione degenerò in pochi decenni, portando nel 1900 alla così detta Rivolta dei Boxer. Fu qui che si inserirono gli interessi italiani.
I rapporti sino-italiani e il trattato del 1866
I rapporti diplomatici tra Italia e Cina iniziarono ufficialmente nel 1866, con un trattato che normalizzava gli scambi economici tra i due Paesi. Tuttavia, il Regno d’Italia non aveva reali interessi diplomatici ed economici nel lontano Oriente. Il comandante Vittorio Arminjon, rappresentante del governo italiano, salpò verso la Cina a bordo della nave da guerra Magenta. La sua missione era di stipulare un accordo commerciale con l’Imperatore, oppure documentarsi il più possibile sulle civiltà asiatiche, in vista di possibilità future. Unico vincolo posto al comandante: non lasciarsi coinvolgere dalla politica interna cinese. Arminjon tornò in patria con un trattato, firmato il 4 novembre a Tianjin, che assicurava all’Italia gli stessi diritti accordati alle altre potenze europee. Tuttavia, il commercio tra Italia e Cina rimase sempre piuttosto modesto, quasi tutto dedito all’importazione di seta orientale.
La trattativa di San Mun
L’Impero Qing, sconfitto e indebolito dalla guerra contro il Giappone (1894-1895), cedette ulteriori territori alla Germania, alla Russia, alla Francia e alla Gran Bretagna. Roma, tre anni dopo Adua e il fallimento dell’invasione dell’Etiopia, tentò quindi di avanzare pretese su qualche territorio cinese, al pari delle altre potenze. Dopo una missione esplorativa, la baia di San Mun, nella regione dello Zhejiang, era diventata la candidata ideale a divenire la prima concessione italiana. Nel 1899 iniziarono i lavori per presentare una richiesta diplomatica alla corte cinese. Il governo italiano, molto probabilmente, sperava nell’appoggio inglese, come accadde in Eritrea e in Somalia. Tuttavia, Londra non aveva alcuna intenzione di agevolare l’espansione italiana in Cina.
Roma presentò a Pechino una maldestra richiesta, che sembrava più un ultimatum, posto senza aver a disposizione nessuna minaccia utile per avanzar pretese. La risposta, a detta della stampa dell’epoca, fu “estremamente imbarazzante”: Pechino non solo rifiutò la richiesta, ma rispose con decisi e coloriti toni nazionalistici. Toni che la Cina non poteva certo permettersi di indirizzare alle altre potenze europee. La trattativa per San Mun si chiuse con un incidente diplomatico. L’occasione per il Regno d’Italia di metter piede in Oriente avverrà con la Rivolta dei Boxer.
La Rivolta dei Boxer
Nel 1898 si formò in Cina un movimento tradizionalista, anti-occidentale e xenofobo: la “Società di giustizia e concordia”. L’associazione passerà alla storia come “Movimento dei Boxer”, poiché nata segretamente nelle palestre di arti marziali. Agitati dalla difficile situazione economica del Paese, frustrati dalle recenti concessioni alle potenze europee e dalle continue violazioni della tradizione cinese, la rabbia dei Boxers esplose nel 1899, dilagando nel nord della Cina. Con il tacito assenso imperiale, i Boxers iniziarono ad aggredire occidentali e cinesi convertiti, oltre che a colpire gli edifici simbolo della presenza straniera.
Nel maggio 1899 la rivolta arrivò a Pechino. Preoccupate per i disordini, le potenze europee diedero ordine agli equipaggi delle navi da guerra ormeggiate di sbarcare, per difendere le sedi delle rispettive legazioni diplomatiche nella capitale. Vi erano anche due incrociatori italiani, il Calabria e l’Elba, con a bordo 42 marinai. Nel frattempo, i soldati imperiali cercarono di frapporsi tra gli europei e Pechino. Quando le forze internazionali ingaggiarono battaglia con l’esercito regolare cinese, aprirono il fuoco senza alcun avvertimento. Il 20 giugno 1900 la Cina dichiarò guerra a tutte le potenze europee presenti.
L’Alleanza delle Otto Nazioni e la partecipazione italiana
Nel frattempo, preoccupate per un’eventuale escalation internazionale tra potenze, causata dalla crisi e dall’ipotetica dissoluzione dell’Impero Cinese, Gran Bretagna e Russia proposero l’allestimento di un contingente militare internazionale, che avrebbe riportato l’ordine a Pechino. Nacque così un’alleanza, detta delle Otto Nazioni, composta da Austria-Ungheria, Gran Bretagna, Francia, Germania, Russia, Stati Uniti, Giappone e Italia.
Quest’ultima comunicò la decisione di partecipare il 5 luglio 1900, con una “circolare riservatissima”. Il fine era quello di approfittare della situazione per ottenere una qualche ricompensa territoriale. Il contingente italiano, al comando del colonnello Vincenzo Garioni e comprendente 1882 soldati, 178 quadrupedi e 83 ufficiali, sbarcò a Tianjin il 27 agosto 1900. Paragonate alle forze della maggior parte delle altre potenze, la partecipazione del Bel Paese fu più simbolica che strategica.
L’intervento internazionale e la fine della Rivolta
Contemporaneamente, i Boxer cingevano d’assedio il quartiere delle Legazioni a Pechino. Qui, un’armata interalleata (tra cui 28 italiani) difendeva i diplomatici e i civili asserragliati all’interno. L’assedio durò dal 20 giugno al 14 agosto 1900. Il 28 agosto, il contingente internazionale entrò nella Città Proibita, scatenandosi in distruzione e saccheggi. Il trattato di pace finale tra la Cina e le potenze europee, il “Protocollo dei Boxer”, fu firmato il 7 settembre 1901. Oltre al dovere di abbattere le fortezze costiere, la Cina fu sanzionata e obbligata a pagare un’indennità per i danni arrecati alle Legazioni internazionali. All’Italia spettarono 146 milioni di sterline.
La concessione di Tianjin
Nella città i Tianjin, su ordine del Ministero degli Affari Esteri, il contingente italiano occupò un’area di circa 45 ettari. L’obbiettivo era di richiederne poi la concessione ufficiale a Pechino. Con l’accordo italo-cinese del 1902, il Regno d’Italia otteneva la sua prima (e unica) concessione commerciale perpetua. Come avvenne in Eritrea e in Somalia, Roma decise di gestire la concessione indirettamente, tramite una compagnia commerciale privata. Già nel 1901, prima ancora di ufficializzare l’accordo, un gruppo di imprenditori italiani si attivò per formare una società anonima, che coordinasse i lavori.
La nascita delle arti marziali in Italia: l’incrociatore Marco Polo
Negli anni successivi la Rivolta dei Boxer la presenza militare italiana diminuì. L’incrociatore Marco Polo rimase l’unico vascello a difesa della concessione: proprio a bordo della nave si svolse un piccolo ma importante pezzo di storia dello sport italiano. Curiosamente, una delle prime conseguenze della presenza italiana in Cina fu la diffusione di un’arte giapponese. Durante la Rivolta, infatti, i marinai italiani avevano avuto modo di conoscere e apprezzare le tecniche di difesa personale praticate dai colleghi nipponici. Il grande entusiasmo dei militari e i possibili impieghi bellici convinsero il Ministro della Marina a organizzare un corso sperimentale a bordo della Marco Polo, organizzato da due maestri giapponesi: fu così che i primi italiani vennero istruiti nell’arte del Judo e del Jujitsu. Arte che sarebbe presto sbarcata anche in Italia, diffondendosi anche tra i civili.
Acquitrini e cimiteri: il territorio della concessione di Tianjin
L’area della concessione italiana in Tianjin era ampia circa 459.000 metri quadrati ed era definita a nord dalla ferrovia Pechino-Shenyang, a est dalla concessione russa, a ovest da quella austroungarica. Il confine meridionale era delimitato da un ansa del fiume Hai He. L’appezzamento di terreno presentava un’altura artificiale, sede di un vecchio deposito del sale, intorno alla quale erano stati scavati fossati e canali, che all’arrivo italiano si presentavano come insalubri laghetti e acquitrini. Inoltre, buona parte del terreno era occupato da un cimitero cinese in abbandono. L’area di sepoltura apparteneva a un piccolo e fatiscente villaggio, irrimediabilmente danneggiato dalla guerra e posto al centro della concessione.
L’avventura orientale italiana partì in salita. L’appezzamento di terreno ottenuto non possedeva immediate potenzialità commerciali e fu ancora più chiaro che il Regno d’Italia non aveva reali interessi in Estremo Oriente. Il governo era mal disposto a finanziare la crescita della concessione e anche i privati erano riluttanti ad investire, come dimostrò la prima asta per i lotti di terreno cinesi, che nel 1908 rimase deserta. Sull’orlo della bancarotta, la sorte della concessione migliorò a partire dal 1912, quando Roma concesse 400 mila lire attraverso la Cassa Depositi e Prestiti. Lo sviluppo urbanistico del quartiere poté finalmente decollare.
Nella prossima parte vedremo come crebbe il quartiere italiano, quale fu il suo ruolo durante la Grande Guerra, quale fu l’impatto del fascismo e in che modo terminò la breve esperienza cinese dell’imperialismo italiano.
Per approfondire
–Mario Sabattini, Paolo Santangelo, Storia della Cina, Roma, Editori Laterza, 2005
–Alessandro Di Meo, Tientsin: la concessione italiana – Storia delle relazioni tra Regno d’Italia e Cina (1866-1947), Roma, GBE, 2015
–Nicola Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Bologna, Il Mulino, 2002
Molte fantastiche fotografie qui presenti sono tratte dal portale “Historical Photographs of China”, a cura dell’Università di Bristol. È liberamente consultabile qui.
Altre fotografie storiche della Cina di inizio secolo sono consultabili presso l’archivio storico della Società Geografica Italiana, a questo link.