Una premessa. L’Algeria e l’Indocina in qualche modo hanno segnato le coscienze di noi europei, certamente non quelli della mia generazione – i millennial possono parlane in termini storici con un briciolo di epica in mezzo a sottolinearne la mitologia di fondo – ma i film che l’hanno raccontata sono di parte francese. Come potrebbe non essere? La fumosa Legione Straniera è un grande mito del Novecento. E, in quanto tale, della storia del Cinema. Per le sue divise, per i suoi uomini, per le mille sigarette che vi si consumavano, per un’aura marziale che emanava, per il cameratismo dei suoi adepti che andava superando le differenze di ceto, di ideologia, di nazionalità, di costume. Tutto cinema, così, su due piedi, anche solo a sentirne parlare. Non sono molti i film francesi che si sono dedicati alla questione, ma i pochi che hanno resistito alle prove del tempo tendono ancora a fare breccia nell’immaginario collettivo del paese della coccarda.
C’è un po’ di tutto in questa epopea che chiude i battenti di una certa idea di Francia: il volto ruvido, mediorientale e un po’ emaciato di Anthony Quinn, quello consunto e maturo di Jean Servais dalla voce roca, i giovani lineamenti apollinei di Delon e quelli altrettanto armonici di Claudia Cardinale, che nell’Africa del Nord ci era nata. C’è la Francia, certo, ma anche Algeri o – per dirla con i titoli nostri, nostrani, italiani – c’è La battaglia di Algeri. Poi ci sono i personaggi, i militari, le torture e le storture, i ritrattamenti e i rimorsi, guerre e paci e tutte queste storie confluiscono in qualche nome, il primo è Charles De Gaulle, il secondo è Jacques Massu, un generale e un militare tanto protocollare da risultare archetipico che poi, da cattolico, si pentì di aver usato la tortura in quei luoghi esotici, lontani, distanti, diversi, difficili.
Al pari di Massu, un altro personaggio degno di nota e ispirazione è Marcel Bigeard. Ispirò uno dei protagonisti de La battaglia di Algeri, ma anche un personaggio di un certo peso di Anthony Quinn.
È di Mark Robson il film che ripesca i dati nella memoria per parlare di Indocina e di Nordafrica, perché tratto da uno romanzo importante – e ben scritto – di uno che quei posti li ha masticati per davvero e la divisa della Legione Straniera non l’ha portata solo per farci il carnevale. Il suo nome è Jean Larteguy, il suo romanzo più fortunato I centurioni, il film da cui è tratto Né onore né gloria, The lost command. Un cast stellare, ma – banalità che vale la pena di ricordare – niente a che vedere col romanzo, grandi sentimenti e devastazioni abnormi, cuori d’oro e ripensamenti, morti e resurrezioni, il fango e il sangue della trincea. E il film? Troppo grande e piccolo insieme, però ci si lustra gli occhi: Maurice Ronet, Anthony Quinn, Claudia Cardinale, Alain Delon. Mica gli spiccioli del divismo europeo.
Un romanzo epico, comunque, che mette moltissima carne al fuoco, i problemi della Francia, il mito dell’Indocina prima, dell’Algeria poi. Anche quelli delle grandi ideologie del Novecento, col comunismo in prima fila che fa la parte del diavolo ma anche del leone. Un grande groviglio quel caso della storia di Francia per il quale poi alla fine De Gaulle optò per la soluzione morbida e la decolonizzazione, attirandosi le ire dei “radicali.” E anche gli attentati.
Il bel Delon si era dato anche per una sua prima produzione su questo tema dell’Algeria, e il film infatti si chiamava Il ribelle di Algeri, parlava dell’OAS, fu un insuccesso commerciale che fece però onore all’attore, che si affiancava a Lea Massari e veniva diretto da Alain Cavalier. L’insoumis, il titolo originale, dava la misura di Delon personaggio, il ribelle, ma più precisamente il non sottomesso, insomma uno che non ci sta a farsi mettere sotto, in linea con quello che il divo francese è sempre stato fuori dallo schermo. The Queen is dead si chiamava l’album dei The Smiths che usava quel Delon in copertina nel suo attimo non fuggente, quello della morte.
Tutti hanno nella testa per trattare il tema il nostro La battaglia di Algeri, il capolavoro di Gillo Pontecorvo che le musiche di Morricone contribuirono a rendere forse un poco più pop. Un film forte che non faceva sconti la cui tenuta narrativa per decenni fece scuola. Quasi un documentario. Ma nel linguaggio del Cinema, e in questo caso non c’ entra solo la Francia, Legione straniera fa rima con esotismo, antieroismo, alcool, donne, sigarette brune senza filtro, bettole fumose, divise imbrattate di sangue, ex galeotti, uomini dal passato oscuro che giocano al pantano della vita con la guerra. Insomma, un vero fronte immaginario del cinema, sempre pronto a veicolare un messaggio di disavventura, morte, putrescenza…
I soldati della Legione Straniera cantavano Non, je ne regrette rien, il grande classico di Edith Piaf. Lasciavano la patria nella quale nulla avevano più da perdere e non se ne pentivano.
La Francia si portava dietro questo passato prossimo e fresco colonialista come un fardello e come una maledizione. Muriel, il tempo di un ritorno di Resnais sottolineava l’ossessione della Guerra di Algeria. Le torture e le violenze erano funzionali anche a una certa mistica di quel cinema…così lontano e così vicino? Non si sa. Ma nel genere bellico questi film fanno un piccolo gruppetto a parte, la violenza si mescola al nazionalismo, il pentimento cristiano e le disquisizioni politiche sottese rendono il contesto machista meno grossolano e più complesso di quanto uno non immagini.