14 marzo 2021. Al Campo Municipal de Barreiro di Vigo è andato in scena un bizzarro derby gallego. Infatti, in Segunda Divisiòn B, la terza divisione spagnola, il Deportivo La Coruña, nobile discesa negli inferi, affronta la seconda squadra del Celta Vigo. Eppure non è passato molto tempo da quando le due squadre galiziane si resero protagoniste di eccellenti risultati sia a livello nazionale, sia europeo, toccando l’apice nella stagione 2003/04, quando entrambe si qualificarono agli ottavi di Champions League.
La Galizia, tra la fine degli anni ’90 e gli inizi del 2000, divenne uno degli epicentri del calcio iberico ed europeo. Al “Super Depor” e all'”EuroCelta” si sommò anche lo straordinario cammino del piccolo Compostela, che riuscì a disputare ben quattro campionati consecutivi in Primera Divisiòn.
L’entusiasmo che Abel Caballero, sindaco di Vigo, mostra per le luci natalizie che ogni anno illuminano la capitale della Galizia, ha sempre destato qualche perplessità all’interno dell’opinione pubblica spagnola. C’è chi considera le luminarie di Vigo un reale vanto per la città costiera e chi, al contrario, insiste sulla megalomania di Abel Ramón Caballero Alvarez, ex ministro dei trasporti del governo socialista targato Gonzalez (la Spagna della Movida degli anni ’80), divenuto sindaco di Vigo nel lontano 2007 e rieletto l’ultima volta nel 2019 con percentuali bulgare, un 67,64% che segna un record nella storia della Spagna democratica: dal 1979 è il miglior risultato di sempre nelle comunità iberiche con più di 200 mila abitanti.
Quando si parla della Galizia, e di Vigo in particolare, c’è un’altra questione da tenere presente: il nord-ovest spagnolo è infatti considerato, storicamente, la porta d’ingresso della cocaina in Europa. Qualche anno fa venne ordinato il sequestro del libro-inchiesta di Nacho Carrettero (giornalista di La Coruña e tifosissimo del Depor, ma questo, al momento, non ci interessa) dall’inequivocabile titolo “Fariña“. Il libro ha vissuto varie vicissitudini, ma alla fine è approdato anche in Italia, edito da Bompiani. Dal libro è stata tratta anche un serie televisiva (normale, di questi tempi) che racconta prevalentemente l’ascesa e la caduta del più grande narcotrafficante gallego, Sito Miñanco, attualmente detenuto nel carcere di Algeciras, al confine con Gibilterra, altro incrocio di rotte sospette.
Miñanco ebbe il suo momento di massimo splendore negli anni ’80, quando divenne uno dei partner principali dei cartelli colombiani. Ottenuti ricchezza e potere, decise di togliersi uno sfizio: comprò il Club Juventud Cambados, ovvero il club calcistico della sua città natale, Cambados, vicino a Pontevedra. Si dice che da quelle parti si beva un vino eccellente, ma ciò non è sufficiente a spiegare la sbornia collettiva che prese questa piccola comunità di diecimila abitanti quando, sul finire degli anni ’80, vide la squadra locale arrivare a un passo dalla Seconda divisione spagnola, dopo una vita trascorsa nei campionati dilettantistici regionali. È come se l’ascesa del Cambados di Miñanco avesse aperto le porte al decennio d’oro del calcio gallego. Infatti, da metà anni ’90 fino agli inizi del 2000, uno degli epicentri del pallone spagnolo fu proprio la Galizia, ed a Vigo, La Coruña e Compostela si vissero autentici momenti di gloria.
EURO CELTA
Il soprannome affibbiatogli dai media spagnoli è abbastanza eloquente: Euro Celta. Effettivamente quel Celta Vigo della seconda metà degli anni ’90 deve la sua fama alle straordinarie avventure europee, in cui il piccolo club galiziano ottenne scalpi decisamente importanti e prestigiosi. Da squadra abitudinaria della parte destra della classifica (nonostante una finale di Copa del Rey persa contro il Real Zaragoza di Nayim), il Celta si trasforma repentinamente in un club da piani nobili della Liga spagnola, il cui dualismo Madrid – Barcellona comincia a mostrare le prime crepe, spifferi dai quali riusciranno a emergere il Valencia (due volte, nel 2002 e nel 2004) e, spoiler alert, un’altra compagine galiziana. Nel 1998 il Celta arriva sesto a pari punti dell’Atletico Madrid di Christian Vieri, a cui è bastato un solo anno nella Liga spagnola per ottenere il titolo di Pichici segnando esattamente un gol a partita, ventiquattro su ventiquattro, tra cui perle di questo tipo.
Il Celta si qualifica alla Coppa Uefa a 27 anni di distanza dall’ultima volta ed in questa gita (europea) di fine secolo decide di mettere subito in chiaro le cose sconfiggendo 7-0 i modesti rumeni dell’Arges Pitesti. Ma sono soprattutto i sedicesimi e gli ottavi di finale a far entrare i galiziani nel mito. Prima ribaltano la sconfitta dell’andata a Birmingham, riuscendo a eliminare l’Aston Villa con un complessivo 3-2, e poi compiono una di quelle imprese che un club modesto come il Celta può ottenere, forse, una sola volta nella storia. Schianta 3-1 il Liverpool al Balaídos e, soprattutto, si ripete ad Anfield, quando il You’ll never walk alone non sortisce nessun effetto sui galiziani che, al contrario, trovano il gol della vittoria al minuto 57′ con una gran discesa di Haim Revivo, che va a esultare sotto lo spicchio dei tifosi galiziani in visibilio.
L’avventura europea, quell’anno, si chiude ai quarti di finale, quando il Celta viene eliminato dal Marsiglia poi finalista (perdente) contro il Parma di Malesani, ancora oggi l’ultimo allenatore di una squadra italiana ad aver alzato la Coppa Uefa. Un exploit può essere casuale, ripetersi, invece, no di certo. È nell’annata successiva, a cavallo tra i due secoli, che il Celta diventa Euro. Questa volta sette gol non vengono messi a segno contro una impresentabile squadra dell’Est, ma a una nobile del calcio europeo. La trasferta non è molto lunga poiché è sufficiente una breve rotolata verso sud. Nel match di ritorno dei sedicesimi di finali, i galiziani si presentano al magniloquente da Luz di Lisbona forti del 7-0 inflitto una settimana prima ad un Benifica inerme. La noblesse europea ritorna sul cammino del Celta e questa volta il viaggio è verso Torino. Al Delle Alpi la Juve vince di misura, ma al ritorno è uno show galiziano, un 4 a 0 che fa volare fiumi di Estrella e riapre vecchie ferite, mai rimarginate, tra Carlo Ancelotti e la tifoseria juventina. Anche nel 2000 la corsa del Celta si arrende ai quarti, sconfitti da un’altra francese, il Lens dei miracoli.
La domanda a questo punto sorge spontanea: chi erano i giocatori simbolo dell’Euro Celta? Una menzione particolare la merita Aleksandr Mostovoj, il cui soprannome, lo Zar, è tutto tranne che originale, per uno nato a due passi da Pietroburgo. Per cercare una sua originalità, però, bastava vederlo muoversi in campo. Uno degli ultimi numeri dieci della vecchia scuola: passo felpato, tecnica, tiro e soprattutto una visione di gioco che illuminava le notti bianche galiziane. Il suo ingaggio nell’estate del 1996 passa in sordina, ma resta in Galizia fino al 2004, si accaparra la 10 per meriti sportivi e conclude la sua carriera al Celta giocando quasi 260 partite. Un gruppo musicale russo gli ha dedicato una canzone e chi è cresciuto con le sue giocate non ha problemi a definirsi un membro della sua generación. Il primo allenatore a qualificare il Celta in Coppa Uefa è un altro personaggio romanzesco, ma, questa volta, non bisogna spingersi fino agli Urali. Il mister nasce ad Irun, ultimo paese pirenaico prima del territorio francese, anche se le carte geografiche, da quelle parti, presentano spesso dei confini differenti. Irureta gioca nel grande Atletico Madrid degli anni ’70, quando partecipa alla Coppa Intercontinentale nonostante abbia perso la finale di Coppa Campioni, e segna uno dei due gol con cui i colchoneros sconfiggono l’Indipendiente, diventando l’unica squadra della storia a laurearsi campione del mondo senza essere campione d’Europa. Prima di arrivare in Galizia, allena senza soluzione di continuità sia a Bilbao che a San Sebastián, a conferma che si tratta di un uomo che non va molto per il sottile.
Qualcosa nel Celta comincia a incrinarsi agli inizi degli anni 2000 e la stagione 2003-04 è un autentico ottovolante. L’annata precedente si era conclusa con una storica e insperata qualificazione in Champions League. Nella fase a gruppi sembra essere tornato l’Euro Celta di qualche anno prima e, dopo Anfield Road, la bandiera galiziana si installa su un altro tempio del calcio europeo: il Celta vince 2-1 a San Siro contro il Milan campione in carica e si qualifica agli ottavi, quando gli inglesi (nello specifico l’Arsenal) si mettono di traverso. Nonostante l’ottimo cammino europeo, la situazione nella Liga si fa sempre più inquietante. Nella seconda parte di stagione si susseguono addirittura quattro allenatori, ma nessuno riesce ad invertire la rotta. Dopo dodici anni nell’élite del calcio spagnolo il Celta Vigo scende nuovamente in Segunda División e lo fa al termine di un’annata resa ancora più tragica da un risultato, una manita storica: 0-5 nel derbi gallego contro gli acerrimi rivali del Deportivo la Coruña. Saranno le ultime recite galiziane di Mostovoj, e se Atene piange, in quel momento storico, Sparta ride di gusto.
SUPER DEPOR
È il 19 maggio 2000 e l’ultima giornata della Liga impiatta una doppia sfida tra Catalunya e Galicia. Il Barcellona ospita il Celta Vigo, mentre l’Espanyol va in trasferta all’Estadio Riazor di La Coruña. Dall’Oceano Atlantico spira il classico vento gelido che rende la primavera galiziana più simile all’autunno. La classifica parla chiaro: a 90′ minuti dall’epilogo il Depor ha tre punti di vantaggio sul Barcellona secondo in classifica e basta un misero punto per spezzare una maledizione che dura da quasi un secolo e portare, per la prima volta nella storia, il titolo in Galizia. Gli spettri e i fantasmi si aggirano su un Riazor che ribolle, ma che allo stesso tempo nasconde una certa apprensione, poiché il Depor ha già fallito due match point nelle giornate precedenti e, solo una settimana prima, in Italia, precisamente a Perugia, si è vissuto un ribaltone storico. Dopo soli tre minuti ci pensa un colpo di testa del brasiliano Donato a indirizzare la gara, mentre alla mezzora, sul cross da destra di Fran, Roy Makaay spara il 22° colpo della sua meravigliosa stagione, poiché un ventennio prima di Luis Suarez c’è un altro pistolero a spaccare la Liga. Il Depor amministra l’ultima ora di gioco senza correre grandi rischi e dopo 4′ minuti di recupero esplode la festa. La gente del Riazor si riversa sul terreno di gioco e la televisione spagnola inquadra le tribune dello stadio dove un composto Mariano Rajoy (all’epoca vice-premier, da sempre tifosissimo del Depor) imita Pepe Carvalho, altro gallego – ma soltanto d’origine – ed estrae il sigaro della vittoria.
A guidare quel Super Depor campione di Spagna c’è niente meno che Irureta, il basco che ha condotto il Celta Vigo alla qualificazione europea. In carriera ha girovagato praticamente per tutto il nord della Spagna, dai paesi baschi (Athletic e Real Sociedad) alla Galizia (Celta e Deportivo), passando per Cantabria (Racing Santander) ed Asturie (Real Oviedo). Questione di clima, atlantico, e di cultura, più scontrosa e taciturna, tant’è che nella caliente Sevilla (sponda Betis) dura solo quattro mesi. Ma l’annata meravigliosa del già ribattezzato Super Depor non è un caso sporadico. La compagine galiziana si piazza nei primi tre posti della Liga spagnola anche nei quattro anni successivi, annate che valgono la costante partecipazione alla Champions League. È il Depor di Tristan, Fran, Luque, Djalaminha e del portiere Molina, che proprio in quegli anni è costretto allo stop temporaneo per curare un tumore ai testicoli, nello stesso periodo in cui un altro sopravvissuto sembra incantare il mondo dello sport. Ed è soprattutto il Depor di Juan Carlos Valerón, nato in un piccolo paese di pescatori a Gran Canaria e approdato in Galizia nel 2000. Indossa la maglia del Depor per tredici stagioni ed è opinione comune che, se avesse avuto ginocchia differenti, non avrebbe avuto problemi a banchettare con il centrocampo della Spagna campione di tutto.
Nella stagione 2003-2004, caso difficilmente ripetibile, due squadre galiziane entrano tra le prime sedici d’Europa. Si è già parlato del cammino del Celta, ma il Depor fa ancora meglio. Elimina agevolmente agli ottavi l’ultima Juventus di Lippi e ai quarti gli tocca un’altra squadra italiana, il Milan campione in carica. Al momento del sorteggio Adriano Galliani non riesce a nascondere il suo sorriso sornione e, difatti, il risultato di San Siro odora di sentenza: 4-1. Il Riazor però ci crede e al ritorno accade l’inverosimile. Già alla mezz’ora il Depor ha messo a segno i tre gol necessari alla qualificazione e alla fine sarà 4-0, una remuntada storica che resta nella memoria collettiva del calcio spagnolo e, di riflesso, anche di quello italiano. Come si evince dalla biografia dell’attuale allenatore della Juventus, che era in campo quel giorno, i giocatori del Depor correvano anche negli spogliatoi, riportando in auge i vecchi sussurri di Eufemiano Fuentes, forse un normale ginecologo, probabilmente qualcos’altro, bersaglio principale della celeberrima Operación Puerto. Seduto in panchina Carlo Ancelotti rivede i fantasmi della nottataccia di quattro anni prima al Balaídos e si rende conto, nonostante una passione mai nascosta per le portate caloriche, di non riuscire proprio a digerire il pulpo a la gallega.
EL CAMINO DE SANTIAGO
No, in lingua spagnola non esiste un corrispettivo del nostro detto popolare “non c’è il due senza il tre.” Eppure sarebbe stato perfetto per spiegare ciò che avviene in Galizia a metà anni ’90, in particolare al termine della stagione 1993-1994. All’Estadio Carlos Tartiere di Oviedo, uno degli stadi del Mundial del 1982, va in scena lo spareggio per la promozione in Primera División. Si gioca in campo neutro, da una parte il Rayo Vallecano e dall’altra l’SD Compostela, che mai era arrivato così vicino all’élite del calcio spagnolo. In un’epoca storica in cui i calendari calcistici non erano densi come oggi, il duello per la promozione diventa triplice. A Vallecas, periferia nord di Madrid, è finita 1-1, mentre all’ombra della Cattedrale più famosa di Spagna si è consumato un pareggio a reti bianche. Per il regolamento spagnolo dell’epoca non esiste la legge del gol in trasferta, quindi si gioca una terza partita, un regolamento di conti nel Principato delle Asturie. E la terza volta è quella buona: il Compostela vince 3-1, con doppietta di Ohen e firma finale di Jose, conquistando la prima storica promozione nella Liga spagnola.
In panchina esulta Fernando Castro Santos, galiziano di Pontevedra, tecnico del Compostela dal 1989, autore di ben quattro promozioni in cinque anni. L’anno successivo ottiene una salvezza al cardiopalma, concludendo il campionato a pari punti con l’Albacete, poi retrocesso (e successivamente ripescato, ma questa è un’altra storia) a causa della classifica degli scontri diretti. I quattordici gol del nigeriano Cristopher Ohen permettono alla squadra di Santiago di mantenere la categoria e al termine della stagione Castro Santos fa le valigie, ma il suo viaggio è di breve durata, poiché firma con il Celta Vigo. Nelle due stagioni successive il Compostela ottiene due salvezze agevoli e tranquille, terminando il campionato a metà classifica. Nell’autunno del 1996 una visita del Barcellona all’Estadio Multiuso de San Lazaro permette agli abitanti di Compostela di osservare dal vivo uno dei primissimi lampi della carriera di un giovanissimo Ronaldo, che segna uno dei suoi gol più belli. E gli applausi dalle gradinate non giungono solamente dai catalani in trasferta.
Nel corso della sua storia il Compostela ha giocato quattro stagioni in Prima Divisione, consecutivamente dal 1994 al 1998, anno della retrocessione. Nel 1996 la squadra di Santiago chiude la stagione al decimo posto facendo 59 punti, due soli in meno del Depor e sette in più del Celta Vigo di Fernando Castro Santos, tecnico della storica promozione.
Per la prima, e ultima, volta nella storia la Galizia è riuscita a portare tre squadre ai vertici del calcio spagnolo.