A cura di Francesco Chirico
Il 16 gennaio 2021 il K2 viene salito in invernale per la prima volta. A riuscire nell’impresa sono 10 alpinisti nepalesi, di cui alcuni proprio dell’etnia Sherpa. Ormai il termine Sherpa ha acquisito un senso più ampio, e viene usato impropriamente come sinonimo di portatore d’alta quota, ma gli Sherpa sono molto di più.
Le origini
Gli Sherpa sono a tutti gli effetti un’etnia, che prende il nome, come molte altre cose, dalla provenienza geografica. Il nome Sherpa (anche detto Sharwa, più simile alla pronuncia locale) significa letteralmente “da est”, ed è riferito al fatto che le loro origini sono nel Khams, regione orientale del Tibet. La migrazione iniziò nel quindicesimo secolo, a causa di tumulti politici e religiosi derivati da un’invasione mongola. I primi Sherpa si stabilirono nel villaggio di Pangboche, nella valle del Solu Khumbu (Nepal), vivendo come mercanti di sale, lana e riso. Altri erano pastori di mucche e yak, o coltivatori di patate orzo e grano saraceno.
Oggi gli Sherpa abitano le montagne del Nepal, del Sikkim, dell’India e del Tibet, per un totale di circa 150 mila persone, mentre la valle di Solu Khumbu, oltre a essere il punto di partenza per l’Everest, è un parco nazionale.
La cultura Sherpa è di stampo tibetano. Lo si vede nella lingua, lo Sherpa, che è solo parlata, ma talvolta viene scritta usando i caratteri tibetani. La maggioranza, vivendo in Nepal, parla anche il Nepali, ma chi lavora con i turisti ha ormai imparato anche altre lingue. Anche a livello religioso, il Tibet ha grande influenza: molti Sherpa provengono dall’antico Nyingma – anche detto Red Hat – una setta del buddismo tibetano, e oggi praticano una via di mezzo tra il buddismo e l’animismo.
Curiosa è invece la questione dei nomi. Se si scorrono le notizie, come quella della recente salita al K2, ci si confonde spesso tra i nomi, che sembrano tutti uguali, e non è un caso. Il sistema culturale è basato 18 clan (ru), con il retaggio che passa per linea di padre. Il nome del clan viene portato dagli Sherpa stessi nella parte finale del nome, mentre per la prima parte, la tradizione vuole che si chiamino i nuovi nati con il nome del giorno della nascita (Dava, Mingma, Lakpa, Phurbu, Pasang, Pemba e Nyima). Quindi possiamo sapere che Mingma Tenzi Sherpa, uno dei 10 del K2, appartiene all’etnia Sherpa ed è nato di martedì. Altri nomi comuni provengono da aggettivi, come Lhamo (bello) e Gylatshen (coraggioso). Altri ancora vengono dal buddismo tibetano, come Tenzing, che significa stabilità e supporto.
Gli Sherpa e l’alta quota
La capacità di lavorare come portatore d’alta quota degli Sherpa è sorprendente, ma da sempre la loro vita si è svolta in alta quota, quindi si può dire che ci siano quantomeno abituati. Oggi chi vive nel distretto di Solu Khumbu è diviso tra la regione del Solu (2400 – 3100 m) e la regione del Khumbu (3700 – 4300 m). Sono quote che noi europei vediamo solo sulle cime più alte delle Alpi, e per raggiungerle abbiamo bisogno di acclimatarci a quote via via maggiori mentre saliamo. Addirittura, durante la prima migrazione dalle terre orientali, i primi Sherpa passarono dal Nangpa La Pass, un passo a 5716 m di quota!
Dopo secoli di vita in alta quota, gli Sherpa si sono adattati all’aria più rarefatta, ottimizzando le risorse al meglio. Uno studio a cura di Denny Levett del 2013, su un campione di 180 volontari, ha individuato le differenze a livello di produzione di energia nel corpo umano. Il nocciolo della questione è il mitocondrio, la componente della cellula produttrice di energia che, a parità di energia prodotta, usa meno ossigeno. Inoltre, lo studio si è focalizzato sulla microcircolazione, ovvero il punto in cui il sangue raggiunge muscoli, organi e tessuti. Ad alta quota, è stato notato che il flusso di sangue in questi punti normalmente rallenta, mentre negli Sherpa rimane normale. Successivi studi [Gilbert-Kawai et al., Bhandari e Cavalleri] hanno poi investigato anche come ci siano differenze a livello genetico, quindi come la popolazione si sia letteralmente evoluta, introducendo questi fattori di adattamento alle alte quote direttamente nel patrimonio genetico, e quindi riuscendo a tramandarle di generazione in generazione.
Nonostante questa predisposizione genetica all’alta quota, fino al ventesimo secolo gli Sherpa non tentarono nessuna ascesa alle vicine montagne, che considerano la dimora degli dei. Molti di loro hanno ormai accettato e adottato l’alpinismo come stile di vita, ma mantengono il rispetto per le loro montagne e si battono contro l’inquinamento che gli alpinisti stranieri producono intorno alle spedizioni. Cacciare gli animali della zona e bruciare la spazzatura, per esempio, sono considerate attività che fanno infuriare gli dei. Per non rischiare la furia degli dei, di cui presto calpesteranno la dimora, prima di ogni spedizione gli Sherpa celebrano la tradizionale cerimonia Puja.
Un lavoro vero e proprio
Da quando arrivarono le prime spedizioni europee, gli Sherpa ed altre popolazioni locali sono stati ingaggiati come portatori d’alta quota. Il lavoro è duro, e alle origini i portatori venivano anche trattati quasi al pari degli schiavi. Man mano che le spedizioni aumentavano, anche i portatori si sono in qualche modo sindacalizzati.
Oggi il lavoro di portatore si divide in più mansioni. Fino ai campi base i portatori sono di ogni etnia, mentre solo i portatori specializzati raggiungono i campi avanzati, perché qui servono capacità tecniche, oltre che resistenza fisica. Questi sono quasi unicamente Sherpa, e possono guadagnare anche 4-5000 dollari in due mesi.
Tra i più specializzati ci sono i cosiddetti Icefall Doctors, che preparano la traccia, i ponti e le scale nella zona della Khumbu Icefall, la zona del ghiacciaio oltre il campo base in cui il ghiaccio scende con un ritmo di più di 1 metro al giorno. Il ghiacciaio cambia ogni giorno, e ogni giorno gli Icefall Doctors devono ingegnarsi per trovare un passaggio. Tipicamente, a svolgere questo lavoro sono gli Sherpa più esperti che non hanno più la forza di salire ai campi alti, ma conoscono la montagna meglio di tutti.
Lavorando dietro le quinte delle spedizioni, non si sente spesso parlare delle morti sul lavoro degli Sherpa, ma i dati non mentono: un terzo dei 225 morti sull’Everest (dati del 2017) sono Sherpa. Solo in occasioni di fatti eclatanti si è sentito parlare di Sherpa morti sul lavoro. È il caso del 18 aprile 2014, in cui 16 portatori, di cui 13 di etnia Sherpa, persero la vita a seguito di un crollo di un seracco sulla Khumbu Icefall. Questa è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso sull’Everest. I portatori hanno minacciato uno sciopero che avrebbe messo a rischio tutte le spedizioni della stagione. Da qui si è iniziato a pensare alla tutela dei portatori, sia a livello sanitario che a livello legale, anche per tutelare le famiglie dei portatori.
Gli Sherpa sul tetto del mondo
Non molti Sherpa accompagnano i clienti fino in cima, sia perché non hanno l’attrezzatura adeguata, sia perché in vetta non c’è bisogno di portatori. Inoltre, molte volte si omette il nome dei portatori, indicando come artefice della salita solo il cliente straniero.
Il primo Sherpa famoso fu Tenzing Norgay Sherpa, che arrivò in vetta all’Everest insieme a Sir Edmund Hillary nel 1953. Nel maggio 2011 invece, Apa Sherpa raggiunse il record di 23 volte sull’Everest, diventando la star del momento.
Nel 2021 si è assistito alla vetta invernale del K2 a opera di 10 alpinisti nepalesi, sia Sherpa che non Sherpa. L’arrivo in vetta hanno scelto di farlo insieme, cantando canzoni della cultura locale, in segno di una nuova era in cui gli Sherpa sono tutelati sul lavoro, e diventano anche protagonisti delle spedizioni stesse.