A cura di Luca Millardi
Di qui non si passa!
L’imperatore Augusto dopo aver completato la conquista delle Alpi dal Tirreno all’Adriatico, si preoccupò di presidiare la vasta catena alpina oramai parte integrante dei possedimenti romani. Per rendere efficace la difesa di questi confini vennero costruite strade militari e presidi, questi ultimi controllati da veterani di sicura lealtà. Durante il regno di Diocleziano (284-305 d.C.) vennero infatti reclutate tra le popolazioni dell’Italia del Nord-ovest (Alpi Marittime, Cozie, Graie e Pennine) tre legioni, denominate “I^ II^ e III^ Julia Alpina” preposte proprio alla difesa del vasto territorio alpino. La memoria di questi antichi difensori fu tra le sicure fonti di ispirazione del generale Giuseppe Domenico Perrucchetti, nel suo celeberrimo articolo “Proposta di un ordinamento militare territoriale delle zone alpine” pubblicato nel 1872 sulla Rivista militare italiana. Considerato da tutti il padre spirituale degli alpini (anche se lui stesso non lo divenne mai), sosteneva fermamente la necessità di ripristinare le ancestrali difese dei confini montani in seno al neonato Regio Esercito. Affidando questo compito a truppe reclutate direttamente sul posto, in modo da creare uno spirito di corpo e un attaccamento particolare al territorio che avrebbero poi dovuto difendere e spingendoli quindi a combattere non solo per il proprio paese ma anche e soprattutto per la loro casa e la loro terra. Il progetto, appoggiato anche dall’allora ministro della guerra Cesare Francesco Ricotti-Magnani, venne approvato con regio decreto da Vittorio Emanuele II il 15 Ottobre 1872.
Istituiti di fatto all’interno di un più vasto progetto di riforma militare come fanteria leggera da montagna, sono in effetti il più antico corpo al mondo nel loro genere. L’anno successivo, 1873, verrà istituita anche l’Artiglieria da montagna, da allora inseparabile compagna delle divisioni alpine. Inizialmente dotati del medesimo equipaggiamento e abbigliamento dell’esercito, riceveranno degli adeguamenti alle loro necessità a partire dal 1873, incluso il loro iconico e amato cappello con la penna nera di corvo sul lato sinistro per la truppa e d’aquila (marrone) per i sottufficiali e gli ufficiali inferiori.
Copricapo derivante dal cosiddetto “cappello all’Ernani”, in onore di quello indossato dal protagonista dell’omonima opera lirica di Giuseppe Verdi (1844), che narra appunto di un montanaro ribellatosi alla tirannia spagnola e per questo indossato da molti a partire dal 1848, come simbolo di libertà e patriottismo.
Un vecchio detto che circola fra gli alpini recita: “Non sono le guerre che fanno gli alpini, ma sono gli alpini che fanno le guerre” e di guerre il corpo degli alpini ne ha viste molte nel corso dei decenni, uscendone non sempre indenne ma sempre con grande coraggio e onore. Dal battesimo del fuoco durante la guerra coloniale in Etiopia ordinato dall’allora presidente del consiglio Francesco Crispi “tanto per prova”, passando per la grandiosa prova di spirito di corpo, umanità e tenacia nel primo conflitto mondiale che vide nascere la loro leggenda, sino alla tragica campagna di Russia del 1942.
Ma gli alpini non hanno paura!
Dal 24 Maggio 1915 saranno davvero impiegati in ciò per cui erano nati qualche decennio prima. Partecipando di fatto a tutte le più cruente battaglie della Prima guerra mondiale sul fronte alpino, dalle cime dell’Adamello, al Carso, al monte Grappa. Soffrendo perdite pesantissime e spesso obbedendo ad ordini al di là di ogni buonsenso ma guadagnandosi per questo anche il rispetto del nemico, impressionato dall’abnegazione e dalla resilienza con cui i battaglioni alpini affrontavano ogni tipo di ostacolo.
Alcune di queste imprese rimangono ancora oggi indelebili nella memoria popolare grazie alle celebri canzoni che da sempre sono caratteristica peculiare del corpo. Canzoni che narrano di fatto delle più celebri azioni compiute dagli alpini ma anche di quotidianità e di pace. Lontane dall’immaginario marziale della vita militare, dal tono spesso sommesso e triste ma cariche di sentimento e umanità, che hanno contribuito nei decenni a creare il mito dell’Alpino. Il soldato-contadino, legato alla famiglia e alla sua terra, costretto e disposto ad ogni tipo di sacrificio per difendere la patria e la propria casa con abnegazione e silenzioso ma indefesso coraggio.
La brillante e rapida conquista del monte Nero da parte del 3°Reggimento alpini, il 16 Giugno 1915, rimane probabilmente una delle imprese più eclatanti. Una vetta considerata inespugnabile con i suoi 2245 m di pareti ripidissime e senza ripari, situata sulla sinistra del fiume Isonzo e sede di una postazione Austriaca considerata di fondamentale importanza dal generale Luigi Cadorna. Gli alpini dei battaglioni Piemontesi “Susa” ed “Exilles” partirono nella notte all’assalto della vetta, con l’ordine di rimanere muti a qualunque costo e non smuovere nemmeno una pietra nel buio più completo. Alle 4:45 del mattino dopo una strenua resistenza nemica la vetta venne presa.
Impressa a fuoco nella memoria degli alpini rimarrà anche la devastante e fallimentare battaglia del monte Ortigara, la montagna “maledetta” da ogni Alpino e costata loro quasi 20.000 morti, o la battaglia del San Matteo (1918) svoltasi a 3678 m s.l.m. (fino al 1984 la battaglia più alta nella storia) sono solamente alcuni dei più famosi esempi del perché le penne nere siano così amate e rispettate. Spesso paragonati ai loro muli, testardi obbedienti e inflessibili, compagni inseparabili di imprese titaniche per issare pezzi di artiglieria con la sola forza dei muscoli ad altitudini impressionanti.
Sicuramente meno glorioso sarà per il corpo il secondo conflitto mondiale, dove tuttavia le divisioni Alpine Julia, Tridentina e Cuneense sapranno distinguersi durante la campagna di Russia. Inquadrate nel corpo di spedizione dell’ARMIR con circa 57000 effettivi, raggiungeranno il teatro operativo del fiume Don nel Settembre del 1942, un territorio nel quale erano assolutamente sprecati e per cui il loro equipaggiamento era largamente inadatto, con pochi automezzi, quasi nessuna artiglieria anticarro e antiaerea. Le divisioni Julia e Cuneense Intrappolate in una “sacca” e accerchiate dall’Armata Rossa nella gelida pianura Russa perderanno più dell’80% degli effettivi e saranno completamente annientate tra sofferenze impressionanti. Solamente la divisione Tridentina, rifiutando la resa, la mattina del 26 gennaio 1943 comandata dal generale Luigi Reverberi attaccherà le forze russe presso il villaggio di Nikolajewka.
In questo remoto villaggio della Bulgaria, si compì uno degli atti eroici della ritirata di Russia, i sovietici avevano sbarrato le strade, l’unica divisione ancora in grado di esprimere potenziale offensivo era la Tridentina. Le munizioni scarseggiavano e i pezzi di artiglieria erano ridotti a poche decine di colpi. Appena in vista dei primi blocchi gli alpini attaccarono, erano le 9:30 del mattino. Si lanciarono all’assalto delle postazioni russe i superstiti dei battaglioni Verona, Val Chiese, Vestone e del II battaglione misto del genio, appoggiati dal gruppo artiglieria Bergamo e da 3 semoventi tedeschi. Fu raggiunta così la ferrovia e dei punti elevati per piazzare le mitragliatrici. Le perdite furono enormi, ma lo scontro continuava e così furono raggiunti la chiesa e alcuni abitati. Verso mezzogiorno si unirono alla lotta i resti dei battaglioni Edolo, Morbegno, e Tirano supportati dai gruppi Vicenza e Valcamonica. Nel corso di questi successivi scontri cadde il Generale Martinat. La lotta continuava cruenta in mezzo all’abitato. All’imbrunire il comandante della Tridentina ordinò di rompere l’accerchiamento portando all’assalto tutto il personale ancora in grado di esprimere potenziale offensivo. I russi sorpresi dall’azione italiana abbandonarono le loro posizioni creando così un corridoio che permise di continuare la ritirata. Di fronte ad un nemico soverchiante per numeri e armamento, contro ogni previsione possibile al grido di “Avanti, Tridentina! Avanti!” riuscirà a raggiungere Šebekino il 31 gennaio 1943 e ad uscire quindi dalla “tenaglia” russa. Prodezza che le varrà una citazione nel bollettino di guerra russo n. 630 dell`8 febbraio 1943 “… il Corpo d` Armata alpino italiano è l’unico che può ritenersi imbattuto in terra di Russia “.
Non solo leggenda.
La storia degli Alpini non è solo militare. Nel 1919 vedrà infatti la luce l’Associazione Nazionale Alpini (A.N.A), che a oggi conta più di 80 sezioni in Italia e 30 all’estero con circa 264.000 membri all’attivo che del corpo continuano a mantenere vive e tramandare la storia, le tradizioni e la gloria. Incluse le loro famose canzoni, patrimonio della memoria collettiva e in grado di strappare ancora più di qualche momento di commozione a chi le ascolta. Ma non solo. Da sempre l’A.N.A. è attiva con grande impegno civile in situazioni di calamità o difficoltà per il paese, continuando ad alimentare il profondo affetto, ben ricambiato, che la popolazione ha da più di un secolo nei loro confronti. Non l’ultima l’emergenza COVID-19, dove gli alpini hanno collaborato a stretto contatto con le Forze Armate, impiegate a supporto del Servizio Sanitario Nazionale durante l’emergenza.
Perseguendo valori antichi, mai dimenticati, ma oggi quanto mai necessari.
Per approfondire:
- Giulio Bedeschi, Centomila gavette di ghiaccio;
- Enrico Camanni, Il fuoco e il gelo. La grande guerra sulle montagne;
- Alfio Caruso, Tutti i vivi all’assalto. L’epopea degli alpini dal Don a Nikolajevka;
- Emilio Faldella, Storia delle truppe Alpine;
- Maria Teresa Giusti, La campagna di Russia (1941-1943).