A cura di Luca Millardi
Dopo la prima guerra mondiale, l’Italia poteva vantare di essere fra i primi cinque paesi al mondo in grado di progettare e costruire carri armati. Nel corso degli anni ‘20 e ‘30 aveva mantenuto questa capacità realizzando delle versioni nazionali di corazzati leggeri derivati da modelli francesi e britannici con un buon successo anche nelle esportazioni. Alla vigilia della seconda guerra mondiale l’esercito e l’industria nazionale avevano allo studio diversi progetti per lo sviluppo di un carro medio.
Tuttavia, le relazioni dopo la guerra in Etiopia, sostenevano, a torto, l’inutilità dei carri armati. Ciò provocò un rallentamento nei processi produttivi italiani, che di lì a pochi mesi avrebbero subito gli effetti delle sanzioni.
Il teatro della Seconda Guerra Mondiale che vide impiegati maggiormente i mezzi corazzati italiani fu il deserto libico-egiziano.
Con questo ultimo messaggio radio, nel pomeriggio del 4 novembre 1942 il generale Arena, comandante della divisione, annunciava con rassegnata determinazione il triste destino della coraggiosa “Ariete”. Conosciuta dai più per la sua eroica e tenace resistenza nel corso della campagna in Africa settentrionale, sempre soverchiata in numeri e mezzi dagli avversari.
Pagò a caro prezzo l’immobilismo nella ricerca e la limitata capacità produttiva dell’industria pesante italiana; figlia della scarsa lungimiranza dei vertici del Regio Esercito nell’adottare efficacemente le nuove opportunità della guerra meccanizzata che pure avevano già lungamente avuto modo di sperimentare. Ufficialmente costituita come Divisione Corazzata Ariete (132^) il 1° febbraio 1939 era composta dall’8° Reggimento Bersaglieri, dal 32° Fanteria Carrista (sostituito nel dicembre 1941 dal 132° Fanteria Carrista) e dal 132° Artiglieria Corazzata.
Tra le divisioni corazzate la Ariete fu quella che sostenne il numero maggiore di combattimenti in tutti i teatri nordafricani, sino alla definitiva resa dei suoi resti nel maggio del 1943 in Tunisia. Persino il Feldmaresciallo Rommel, notoriamente parco di complimenti nei confronti degli alleati italiani scrisse nel suo libro di memorie dei «valorosi reparti della divisione Ariete che in un furioso combattimento hanno reso impossibile ogni avanzata al nemico» e compiuto «cose straordinarie nelle ore difficili», il 6 maggio 1942 durante l’assedio alla fortezza di Tobruch.
La divisione al momento del suo dispiegamento in Libia, nel 1941, giungeva a Tripoli con mezzi decisamente al di sotto delle necessità che lo scenario richiedeva: circa 93 carri leggeri (L3) con armamento standard e 42 carri medi (M13/40).
Il carro armato leggero 3 (L3), rinominato nel 1942 L33, fu uno dei più diffusi mezzi corazzati nel Regio Esercito tra il 1940-41.
Concepito oltre un decennio prima per essere utilizzato come carro veloce di supporto alla fanteria con un armamento molto leggero, erede del C.V. 33 (Carro Veloce) si dimostrerà assolutamente inadatto nella quasi totalità dei compiti a cui era assegnato. Divenendo tristemente noto per essersi guadagnato il soprannome di “scatola di sardine” o “Arrigoni” (nota marca di pesce in scatola).
Nonostante questo nelle sue varie versioni rimane uno dei carri italiani più esportati (10 paesi) e l’unico ad aver partecipato alla quasi totalità delle azioni belliche italiane tra gli anni 30 e 40, tanto che nel giugno del 1940 era presente in più di 300 esemplari in Nord Africa.
Il mezzo venne prodotto da un consorzio monopolistico di discutibile legalità composto da FIAT e Ansaldo, industria pesante già molto attiva nella produzione navale e di artiglierie.
Era lungo poco più di 3m e alto meno di 1,50m e dimostrava eccellente maneggevolezza e una buona velocità (circa 40 Km/h). Tuttavia presentava una corazzatura assolutamente inadeguata per compiti controcarro, un armamento che si riduceva ad una mitragliatrice binata da 8mm nella sua versione base e un motore dalla potenza molto limitata (43 cavalli).
Questi carri verranno gradualmente sostituiti (mai del tutto in realtà), con più lentezza di quella che il buonsenso parrebbe consigliare, da quelli che furono poi la colonna portante delle divisioni corazzate italiane. I carri medi (M), denominati M13/39 in origine, poi sostituiti dagli M 13/40 e da aggiornamenti successivi, furono costruiti a partire dal 1939 per ovviare ai difetti dei carri leggeri ormai palesemente inadeguati alle esigenze dell’esercito. Sullo stesso livello dei carri inglesi schierati in Africa settentrionale nello stesso periodo, ma decisamente inferiori a quelli tedeschi, erano dotati di un cannone anticarro da 47 mm e si dimostrarono mezzi validi ma con alcune criticità. Equipaggiati con un motore di scarsa potenza (dapprima 125 poi 145 cavalli) il loro principale difetto era senza dubbio da ricercarsi nella corazzatura, costituita da piastre rivettate e non saldate tra loro. Scelta plausibilmente imputabile alla volontà di velocizzare la produzione o massimizzare i profitti sulle commesse da parte della Ansaldo. Estremamente rigida e poco flessibile, tendeva a rompersi facilmente in seguito a colpi diretti e non di rado la corazza frontale veniva ricoperta di sacchi di sabbia per aumentarne la deficitaria protezione. Non certo derivante da una mancanza di conoscenze tecniche, poiché l’azienda produceva nello stesso periodo anche navi da guerra e artiglierie navali di qualità.
Con un totale di circa 710 unità prodotte, il carro M non fu costruito in numeri né sufficienti ad un impiego massiccio sul campo né al pari di altri carri medi avversari e alleati, assemblati in molte migliaia di unità. Inoltre il cannone da 47 mm montato in torretta si rivelerà ben presto obsoleto in funzione anticarro, costringendo gli equipaggi ad ingaggiare i carri avversari da distanze estremamente ridotte nell’ordine delle centinaia di metri per poter essere di qualche efficacia.
Un deciso miglioramento nei mezzi delle forze corazzate italiane in Nord Africa si ebbe con l’arrivo e l’impiego alla Ariete e nelle altre divisioni dei semoventi M40 da 75/18 a partire dal maggio del 1942. L’idea alla base di questi mezzi differenti dai carri armati tradizionali era nata all’Ansaldo in seguito all’osservazione degli Sturmghescütz (cannoni d’assalto) tedeschi che trovano i loro omologhi moderni nella attuale artiglieria semovente. Bocche da fuoco di grosso calibro montate su uno scafo (da carro armato) capace di spostarle senza traino esterno e di una blindatura per proteggere un ridotto equipaggio. I semoventi italiani saranno costruiti sullo scafo dei carri M13/40, con una casamatta fissa al posto della torretta, che nella loro prima incarnazione ospiterà un pezzo anticarro fisso da 75mm di calibro. Il motore rimase però il medesimo dei carri medi, peggiorando in prestazioni a causa del peso incrementato dal nuovo cannone. La corazza venne potenziata solo frontalmente con due lastre da 25mm (nuovamente non saldate). Non erano dotati di un armamento anti fanteria o anti aereo, ma solamente di una mitragliatrice Breda da 8mm in casamatta, estraibile al bisogno. Pur non essendo considerabile un carro armato nel senso stretto del termine, il semovente M40 e i suoi successivi aggiornamenti si riveleranno avversari ostici per i carri inglesi. Alti solamente 1,85m con una sagoma bassa e compatta si presentavano sfuggenti e difficili da colpire ma dotati di una potenza di fuoco adeguata ad affrontare tutti i carri nemici presenti in Africa Settentrionale nel 1942. Tanto che la Royal Army consiglierà ai suoi equipaggi di non affrontare mai questi mezzi senza un supporto aereo anticarro. Tuttavia il loro numero non sarà mai di molto superiore alle 20 unità per divisione.
Il 27 ottobre alla vigilia della seconda battaglia di El Alamein la divisione corazzata “Ariete” si apprestava a combattere con appena 117 carri M13/40 e 17 semoventi da 75/18. Quasi tutti questi mezzi rimasero sul campo, pesantemente danneggiati o distrutti il 4 novembre 1942 e nei combattimenti dei giorni successivi. Con loro smise di esistere anche la divisione stessa. Vittima della mancanza di una vera e propria dottrina nell’impiego dei mezzi corazzati da parte del Regio Esercito nonché dell’assenza di una chiara visione delle necessità sul campo, in un regime ostaggio del monopolio industriale (FIAT-Ansaldo) che esso stesso aveva contribuito a creare.
Per approfondire:
- Filippo Cappellano-Pier Paolo Battistelli, I carri armati italiani leggeri, medi e pesanti 1919-1945;
- Giorgio Rochat, Le guerre italiane 1935-1943;
- Erwin Rommel, Memorie. La campagna d’Africa. Guerra senza odio;
- Dino Campini, Ferrea Mole Ferreo Cuore: Le Battaglie dei Carristi della Centauro, dell’Ariete e della Littorio in Abissinia, Spagna, Albania, Libia, Egitto e Tunisia.