Qualcuno rimarrebbe sbalordito a leggere che Umberto Bossi è il nuovo proprietario dell’SSC Napoli? E ci stupiremmo se una cordata di facoltosi imprenditori baschi comprasse il Real Madrid? Niente di tutto ciò è successo, fin’ora, ma un’altra notizia sorprendente arriva dal Medio Oriente.
A inizio dicembre 2020 Moshe Hogeg, proprietario del Beitar Jerusalem, ha venduto il 50% delle quote della società sportiva ad Hamad Bin Khalifa Al Nahyan, un membro della famiglia reale degli Emirati Arabi Uniti, rendendosi protagonista di uno degli affari più surreali della storia del calcio. Surreale perché il club, per cui il primo ministro Bibi Netanyahu fa il tifo, è storicamente la squadra della destra nazionalista israeliana e molti dei tifosi che popolano gli spalti del Teddy Stadium a Gerusalemme sono tra i più violenti e xenofobi.
Il Beitar fu fondato in Lettonia nel 1923, inizialmente era un movimento giovanile che si diffuse in Europa Orientale composto da attivisti sionisti che si preparavano ad emigrare in Palestina per costruire una nazione. Acronimo di Brit (alleanza) Trumpeldor l’organizzazione pionieristica deve la propria denominazione a Iosif Trumpeldor, militare russo e attivista sionista e si ispira all’ideologia politica di Vladimir Jabotinksi.
Il sionismo revisionista di Jabotinksi differiva da quello tradizionale per alcuni aspetti chiave: promuoveva un espansionismo più aggressivo cercando di stabilire uno stato ebraico su entrambe le sponde del fiume Giordano, assumeva una posizione belligerante nei confronti del governo britannico in Palestina e adottava punti di vista fortemente anti-socialisti.
Nel 1936, David Horn, che presiedeva la filiale locale del Beitar a Gerusalemme, reclutò alcuni ragazzi per fondare una squadra di calcio. Molti dei nuovi calciatori appartenevano all’Irgun, un’organizzazione paramilitare. Nacque così il Beitar Jerusalem.
Lo sport gioca un importante ruolo nella vita politica del paese perché le prime organizzazioni sportive erano strettamente legate alla politica e all’ideologia: il Maccabi era principalmente affiliato all’upper-middle class sionista. Hapoel, invece, in ebraico significa “lavoratore” e ai suoi albori era legato alla classe operaia e al movimento socialista.
Dagli anni ’80 in poi, con l’avvento della privatizzazione, questa struttura associazionistica si è indebolita e la maggior parte delle squadre israeliane ora ha proprietari privati. Tuttavia, diversi elementi sono rimasti tali.
Ai giorni d’oggi sono rimaste le tifoserie organizzate, ovvero gli ultras, a rivendicare la propria matrice politico-culturale: Il Maccabi Tel Aviv ha un pubblico principalmente borghese e patriottico. L’Hapoel Tel Aviv e l’Hapoel Jerusalem tendono ad essere associati alla sinistra radicale con le tifoserie favorevoli alla co-esistenza con la popolazione araba in campo e sugli spalti.
La frangia oltranzista del pubblico del Beitar che sta ostacolando l’ultimo passaggio di proprietà si chiama “La Familia“. Nato nel 2005, questo gruppo è costituito per lo più dai discendenti di coloro che sono dovuti fuggire dai Paesi mediorientali o nordafricani dopo il 1948 (mizrachim, oppure sefarditi). I suoi membri hanno rapporti diretti coi politici di estrema destra e si identificano nel partito ultra-nazionalista e ortodosso di Mehir Kahane. La posizione dei Kahanisti è così estremista che Israele l’ha inclusa nella lista delle organizzazioni terroristiche.
Nella loro sezione del Teddy Stadium, oltre allo sventolio delle bandiere giallo-nere e ai tradizionali cori per incitare i propri beniamini a gonfiare la rete, la tifoseria del Beitar lancia slogan di odio verso i palestinesi, partita dopo partita. La più calda si gioca contro il Bnei Sakhnin squadra arabo-israeliana del nord in cui i tifosi de “La Familia” cantano cori spiccatamente oltre i limiti del razzismo come “morte agli arabi” o “Maometto è omosessuale”. Dopo l’ennesimo episodio spiacevole, nel 2007, la federazione israeliana di calcio decise di chiudere le porte dello stadio per punire questo comportamento. Come vendetta, La Familia incendiò gli uffici della federazione lasciando sui muri il graffito LF, iniziali del proprio nome.
Gli stessi tifosi, ogni anno, disturbano il minuto di raccoglimento che viene dedicato alla commemorazione dell’omicidio di Izchak Rabin, il premier israeliano che intraprese trattative di pace con Yasser Arafat, leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. I negoziati, chiamati accordi di Oslo, prevedevano il riconoscimento reciproco del diritto ad esistere e per questo i due leader ricevettero il Nobel per la Pace.
La sera del 4 Novembre del 1995, dopo una manifestazione pacifista, Izhak Rabin fu ucciso da Yigal Amir, un fanatico religioso ebreo.
Questi comportamenti intimidatori hanno fatto sì che nella storia recente, il Beitar, è l’unica squadra a non aver mai tesserato un calciatore arabo.
Nel 2005 la dirigenza prova a cambiare rotta acquistando il calciatore nigeriano Ndala Ibrahim, musulmano, che però è costretto a ritirarsi dopo avere subito forti pressioni da parte del pubblico.
Uno scenario simile si verifica nel 2013 quando il club gerosolimitano passa sotto la presidenza di Arcadi Gaydamak, oligarca e trafficante d’armi d’origine russa. I primi acquisti del calciomercato sono due atleti ceceni, Dzhabrail Kadiyev e Zaur Sadayev, ambedue musulmani. La presenza dei due nuovi arrivati provoca contestazioni senza sosta: fischi, insulti e umiliazioni che culminano con l’abbandono dei tifosi. I sostenitori lasciano la propria squadra del cuore giocare in uno stadio quasi deserto fino alla fine della stagione! Questa vicenda è raccontata interamente nel documentario Netflix “Forever Pure”.
Questo contesto ci spiega perché l’investimento è paradossale e quasi ironico.
Alla domanda su come si è arrivati a quest’affare lo sceicco Hamad ha risposto: “Dio ci ha connesso”. Senza trascurare il coinvolgimento di qualcuno lassù, l’operazione va inserita negli Accordi di Abramo che rafforzano le alleanze strategiche tra il fronte arabo sunnita e Israele.
Firmati pochi mesi fa a Washington, gli accordi architettati dal presidente Trump e il genero Jared Kushner, definiscono la normalizzazione dei rapporti tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti, che diventano il primo paese arabo del Golfo Persico a riconoscere ufficialmente Israele.
Gli accordi di Abramo, nominati così per via del Patriarca in comune fra le tre religioni monoteistiche, stanno riconfigurando la scacchiera geopolitica del Medio Oriente. Questo non è propriamente un trattato di pace, come lo sono stati gli accordi di Oslo del 1993, perché i paesi non sono mai stati in guerra e oltretutto non condividono confini comuni.
Sono accordi che rafforzano i rapporti economici e commerciali e nasce un’intesa nei settori militari e di intelligence missilistica in chiave anti-iraniana.
Gli Emirati Arabi Uniti saranno il terzo paese arabo, dopo Egitto e Giordania, ad intrattenere relazioni diplomatiche con la diplomazia israeliana. A seguire anche Oman, Bahrein, Sudan e per ultimo Marocco hanno normalizzato i rapporti diplomatici con Israele. Tra gli sconfitti di questo nuovo scenario ci sono gli esclusi, i palestinesi.
Un avvenimento geopolitico di questa portata in termini di relazioni internazionali è la dimostrazione di come la globalizzazione del business calcio stia portando via gli ultimi barlumi di identità locale, avendo un effetto su una squadra di calcio costretta da anni a confrontarsi con la violenza e il razzismo, provocando così una svolta storica.
Il futuro de “La Familia” sembra avere una data di scadenza. Moshe Hogeg ha annunciato di voler sporgere denunce personali minacciando chi dovesse diffondere ulteriori messaggi razzisti con multe di un milione di euro. A poco a poco e con l’aiuto della situazione epidemiologica alcuni tifosi si stanno allontanando dall’ambiente, anche se l’arrivo dello sceicco arabo ha fatto sì che un centinaio di ultras si presentasse all’allenamento della squadra per chiarire la loro posizione contro l’acquisto.
Il calcio, il gioco più spettacolare al mondo, spesso è lo specchio di tutto ciò che accade fuori dal rettangolo di gioco. I suoi stadi agiscono come cassa di risonanza per conflitti e fenomeni sociali e nel caso della nuova proprietà del Beitar anche di relazioni internazionali e accordi politici macro-regionali.