È la primavera del 1954 quando nel sud-est asiatico si aprono le danze di quella che passerà alla storia come la battaglia di Dien Bien Phu. L’esercito ribelle vietnamita, comandato dal generale Giáp, impiega cinquantasei giorni ma alla fine riesce ad avere la meglio sui francesi. La conferenza di Ginevra conferma ciò che è stato decretato dal campo di battaglia: i francesi abbandonano l’amata Indocina, mentre la penisola vietnamita viene divisa in due nazioni, fissando il confine sul diciassettesimo parallelo. Non è un’epoca semplice dalle parti di Parigi, poiché proprio a metà degli anni ’50 scoppia la grana algerina. Si intuisce fin da subito che sarà difficile sbrogliare la matassa in un’area geografica tenuta sotto il controllo francese da metà ‘800. Il vento della decolonizzazione è alle porte, ma nessuno al tavolo presidenziale parigino sembra avere la soluzione a portata di mano, tant’è che qualcuno (più di uno, in realtà) si convince che l’unica soluzione possibile sia richiamare un pluridecorato eroe di guerra.
Un uomo intento a percorrere una lunga traversata nel deserto. Metaforica, poiché questo ultrasessantenne si trova ancora all’interno del perimetro dall’Hexagone, precisamente a Colombey-les-Deux-Églises, in confinament volontario. Charles de Gaulle torna al potere il 13 maggio del 1958 e progressivamente si vede costretto a rinunciare all’Algeria francese, inimicandosi i militari e i pieds-noirs. La guerra si conclude solamente nel 1962, quando il 5 luglio viene proclamata l’indipendenza della nazione algerina.
In quegli anni il vento decoloniale soffia forte verso un’unica direzione, ma non sempre la portata del vento è la stessa. In Indocina e in Algeria si è combattuto, anche molto duramente, con migliaia di morti, specialmente tra i civili algerini (e non tutti sono riusciti a dimenticare). In altre zone, però, l’indipendenza è arrivata senza bisogno delle armi. È il caso del Senegal che diventa uno stato nazione nel 1960, separandosi prima dalla Francia e poi, il 20 agosto, dal Sudan, che dichiara in contemporanea la propria indipendenza. Il primo presidente eletto a Dakar è Léopold Sédar Senghor, professore di licei e università parigini fino alla seconda guerra mondiale, quando si arruola con l’esercito francese ed in seguito aderisce alla resistenza. Terminato il conflitto ripara nelle colonie dell’Africa, diventa uno dei protagonisti della stagione decoloniale e governa il neonato Senegal per vent’anni, quando lascia al suo successore Abdou Diouf.
È il 31 maggio 2002 e per l’ultima volta nella storia della Coppa del mondo la squadra campione in carica disputa la prima partita del Mondiale. Sarà che per questa edizione non esiste una sola nazione organizzatrice, ma bensì due, il Giappone e la Corea del Sud. E proprio a Seul va in scena la cerimonia d’apertura del Mondiale nippo-coreano, che precede l’ingresso in campo delle due squadre. La favorita del mondiale, quella Francia campione d’Europa e del mondo in carica, ancora inconsapevole che sta per inaugurare un’usanza abbastanza comune nei Mondiali del XXI secolo: così come l’Italia del 2010, la Spagna del 2014 e la Germania del 2018, anche la Francia del 2002 verrà eliminata, da campione uscente, già al primo turno. Ad attendere i galletti c’è un ex colonia, quel Senegal che si è reso indipendente nel 1960, e partecipa a una Coppa del mondo di calcio per la prima volta nella sua storia. I Leoni si sono guadagnati la possibilità di inaugurare il Mondiale (contro la ex madrepatria) avendo eliminato, nel girone di qualificazione, l’intero nord-Africa: Marocco, Algeria ed Egitto cadono sotto i colpi della nazionale guidata da Bruno Metsu, la cui storia meriterebbe un capitolo a parte. Nato a due passi dal confine belga, per tutti gli anni ’90 allena alcune provinciali francesi (Lille, Valenciennes, Sedan) prima di mettersi al servizio delle nazionali africane: prima la Guinea e poi il Senegal, con il quale strappa la qualificazione per il Mondiale e, nello stesso anno, arriva in finale della Coppa d’Africa. Dei ventitré selezionati per la Coppa del mondo, ben 21 giocano in Francia, nessuno in un grande club. La colonia principale si trova a due passi dalla casa di Metsu (dove morirà nel 2013, sconfitto da un tumore), in quel Lens autentica rivelazione dei primi anni 2000, capace di contendere il titolo all’Olympique Lyon campione di Francia per sei anni consecutivi.
La nazionale francese guidata da Roger Lemerre schiera un attacco potenzialmente atomico, composto dal capocannoniere della Serie A (David Trezeguet) e quello della Premier League (Thierry Henry), assistiti da Zinedine Zidane che a Madrid, finalmente, è riuscito a mettere in bacheca la Coppa di campioni, sfuggitagli a più riprese con la maglia della Juventus. Poi ci sono i Makelelé, i Viera (nato a Dakar), i Sagnol, i Desally e i Lizarazu. A posteriori ci si può rendere conto che l’età media è piuttosto elevata, specie nel pacchetto arretrato, ma come non credere al canto del cigno di una generazione dorata capace di conquistare il Mondo e l’Europa negli ultimi quattro anni?
Per tutto quel Mondiale, il primo del nuovo millennio, la palla sul terreno di gioco sembra schizzare ad un’altra velocità. Sarà a causa dell’estetica orientale di quel pallone, il mitico Fevernova, autentico feticcio di una generazione ancora inconsapevole di essere etichettata come millenials; oppure è merito di quei terreni di gioco nippo-coreani, perfetti, con l’erba tagliata al millimetro, rifiniti con cura e maestria come solo quella parte di mondo sa fare con la propria vegetazione. È il calcio del futuro, veloce, pirotecnico, schizzofrenico.
Alla mezzora Papa Bouba Diop vince un contrasto sulla linea mediana e lancia in campo aperto El Hadji Diouf, che va al doppio della velocità di Leboeuf, uno dei membri di quella vielle garde che, invece, in quel Mondiale, si arrenderà. La saetta senegalese mette in area un pallone sul quale due campioni del mondo (Barthez ed Emmanuel Petit) combinano un disastro. In area c’è Bouba Diop, abile nel cominciare e rifinire l’azione. Da terra il numero diciannove senegalese schiaffia il pallone in rete, siglando il primo gol del Mondiale, il primo del nuovo millennio, il primo della storia del Senegal. Ciò che accade dopo è facilmente immaginabile. Bouba Diop si libera della maglietta, la stende sul prato verde del World Cup Stadium di Seul e insieme ai suoi compagni senegalesi inscena una danza incomprensibile, almeno agli occhi di noi europei. La partita va avanti, ma la storia è ormai stata scritta ed è scalfita nella pietra. Il Senegal vince 1-0 contro la ex madrepatria e la rete di Bouba Diop diventa automaticamente il gol più importante della storia del calcio africano, scostando dalla prima posizione il colpo di testa di Omam-Bitiyk ai campioni del mondo argentini, in un San Siro gremito per la partita inaugurale di un’estate italiana. Non si festeggia solo a Dakar e dintorni, ma in tutta la Francia. A Parigi i senegalesi, spesso rinchiusi nelle cités oltre la périphérique, si riversano sugli Champs-Elysées. Esultano, ballano, festeggiano per tutta la giornata, complice il fuso orario dell’estremo oriente, la cui notte coreana è un primo pomeriggio europeo. Quel Senegal guidato da Bruno Metsu arriverà fino ai quarti di finale della Coppa del mondo (colonne d’ercole del calcio africano), venendo eliminato dalla Turchia di Rustu, Hasan Sas e Basturk.
Papa Bouba Diop a metà anni 2000 ha lasciato il Lens per tentare l’avventura oltre la Manica. Ha vestito le maglie di Fulham, di cui è stato anche capitano, e Portsmouth, dimostrandosi uno di quei centrocampisti box-to-box cari al calcio di sua maestà. Una volta appesi gli scarpini al chiodo, si è ritirato dal mondo del calcio preferendo tornare a vivere a Lens con la sua famiglia. Si è spento il 29 novembre 2020 in un ospedale parigino, in seguito all’insorgere di alcune complicazioni dovute alla SLA. La spoglia del calciatore senegalese è stata trasferita nel suo paese natale, dove ha ricevuto i dovuti omaggi. Il presidente del Senegal, Macky Sall, ha annunciato che presto verrà costruito un museo in onore di un uomo reo di aver «lasciato ai posteri il nome del Senegal sulla mappa del calcio.»