Nella basilica di Santa Maria Maggiore a Roma, tra marmi bianchi e stucchi dorati, sorprende trovare il nero busto di Antonio Nigrita, misconosciuto congolese che nel 1603 approdò a Roma per lanciare al Papa un appello che, se ascoltato, avrebbe cambiato il corso della storia. Nigrita, ovviamente, non era il suo nome. Si chiamava Nsaku Ne Vunda, troppo lungo e complicato per gli esterrefatti romani che se lo trovarono davanti. Era stato battezzato don Antonio Manuel il giorno in cui fu ordinato prete. Cosa c’era venuto a fare un prete congolese a Roma all’inizio del Seicento? E come era potuto arrivare? Primo ambasciatore africano nella Santa Sede, in un’epoca in cui la maggior parte di persone ignorava l’esistenza di terre così remote, armato solo della sua croce e di una tenera fede nella bontà del cuore umano, don Antonio Manuel aveva viaggiato per tre continenti per chiedere al Papa, l’uomo più santo del mondo, di fermare l’orrore del traffico di esseri umani nell’oceano Atlantico. E’ ciò che ci racconta Wilfried N’Sondé nel suo ultimo libro Un oceano, due mari, tre continenti, uscito in Italia lo scorso novembre, edito da 66th and 2nd, casa editrice sempre molto attenta a intercettare perle rare nel panorama della letteratura mondiale. Un romanzo storico potente, un’avventura straordinaria, che affronta un momento centrale per lo sviluppo del mondo moderno, sul quale spesso volentieri si sorvola: la deportazione di schiavi dalle coste dell’Africa verso le piantagioni americane.
Nel 1480 i primi navigatori provenienti dal Portogallo erano sbarcati nella baia dove, più tardi, sarebbe stato costruito il porto di Luanda (capitale dell’attuale Angola) e cominciarono a intrattenere rapporti commerciali con Mvemba Nzinga, battezzato Alfonso I, re del Congo convertito al cattolicesimo. Questi rapporti crebbero e si specializzarono nei decenni successivi quando, scoperto lo sterminato continente americano, le menti perverse dei consiglieri del re di Portogallo partorirono l’idea – piuttosto complessa e per nulla scontata – di trasportare nel nuovo continente lavoratori abituati al clima tropicale, per sfruttarli nelle piantagioni. Nel 1509 Alfonso I concluse con i Portoghesi il primo contratto commerciale: un migliaio di prigionieri di guerra e varia marmaglia in cambio di utensili vari (ma soprattutto di artiglieria). Questo primo scambio era destinato a diventare una consuetudine lunga quattro secoli, in cui milioni di africani continuarono a essere venduti come schiavi. Ricchi africani pensavano di arricchirsi, mentre si gettavano le basi per nuove schiavitù future. Congo significava «il luogo dove non bisogna arrendersi» in memoria di un antico mito di fondazione che narrava di donne coraggiose che avevano scelto questa terra per vivere libere, «che avevano preferito affrontare l’ignoto piuttosto che accettare passivamente il fato». La macabra ironia della sorte volle che proprio queste coste diedero il maggior contributo alla tratta degli schiavi.
Il nostro eroe nasce nel 1583, quando l’ America centromeridionale era già proficuamente asservita agli europei e il traffico di schiavi dalle coste africane verso quelle terre bisognose di manodopera era ormai operativo a pieno regime. Il regno del Congo era cristiano da quasi un secolo. La parola di Dio non aveva trovato particolari ostacoli, era stata integrata nelle credenze locali che accoglievano volentieri nuovi spiriti potenti e benevoli – come sembrava essere il Dio dei Cristiani. Nsaku Ne Vunda, battezzato don Antonio Manuel, è un orfano nato in un piccolo villaggio. Mite, generoso e di buon carattere, diventa prete e si dedica con amore alla sua comunità. Finché, un giorno, la vita di questa delicata creatura viene stravolta e gettata in pasto alla Storia. Papa Clemente VIII in persona aveva scritto al re del Congo per complimentarsi che avesse abbracciato la vera fede e per richiedere l’invio di un ambasciatore permanente che avrebbe rappresentato il Congo in Vaticano. Don Antonio era il prescelto. Insieme all’incarico ufficiale, il re gli consegnò anche un compito importantissimo e segreto. Il re, da buon cristiano, si era pentito dell’ignobile traffico di carne umana inaugurato dal suo predecessore, ma non aveva il potere di fermarlo. Il compito di don Antonio Manuel era quindi informare il Papa di ciò che stava succedendo in Africa, così che potesse convincere gli stati europei a interrompere immediatamente la compravendita degli schiavi.
Candido di cuore e animato da un puro amore per gli esseri umani, don Antonio Manuel affronterà forze politiche, religiose e militari di cui non sospetta nemmeno l’entità. Solo con la sua Bibbia e la sua croce. Sarà imbarcato in una nave carica di schiavi diretta in Brasile; incontrerà pirati, uomini corrotti, soldati sanguinari, la follia della Santa Inquisizione. Convinto fino all’ultimo che il Papa non potesse essere a conoscenza, che non avrebbe mai permesso il commercio di esseri umani, arriva, infine, a Roma, dove crolla l’ultima illusione: «Io che avevo per così tanto tempo creduto di incontrare un sant’uomo vidi solo un cinquantenne affaticato, profumato di essenze delicate, riccamente vestito con un abito bianco che gli arrivava fino ai piedi. Un uomo dai tratti stanchi su un colorito reso più vivace da belletti colorati, un mero amministratore prigioniero del fasto. L’espressione del suo viso testimoniava la banalità di un individuo obbligato a vivere lontano da qualsiasi ideale». Scopre che l’Europa non è il luogo più sacro della terra, non è il continente dove l’amore di Cristo palpita in ogni cuore, ma una terra abitata da schiavi e padroni, da miseria e avidità.
Wilfried N’Sondé fa emergere un filo rosso che connette Europa, Africa e America, mostra il disegno di una storia mondiale che è storia di violenza e sopraffazione. Scrive con ritmo, gli eventi incalzano violenti, straordinari, come in un film d’avventura. Ma c’è spazio anche per lo stupore inquieto, per lo scandalo assurdo che il lettore condivide con il protagonista, Io narrante incredulo, tenero eroe moderno smarrito nel male del mondo, in cerca di un senso all’angoscia e al dolore. Tramite la sua bontà arresa e l’aggrapparsi saldamente alla sua missione (che diventa sempre più assurda, quanto più scopre l’orrore del mondo intorno a sé), tramite i suoi occhi buoni ci scopriamo risvegliati al fatto che il Bene è possibile. La narrazione scorre con un linguaggio poetico, ma preciso e concreto. Muovendosi tra piccola e grande Storia, nelle macchinazioni di un mondo che già allora assomigliava più a un mercato delle vacche che alla nobile creazione del Padre celeste, Wilfried N’Sondé dipinge il ritratto di un’epoca oscura, lontana quattro secoli, ma con inquietanti echi contemporanei.
Nato nel 1968 a Brazzaville (città della Repubblica del Congo, curiosamente fondata dall’ esploratore italiano Pietro Savorgnan di Brazzà, da cui prende il nome), Wilfried N’Sondé è un romanziere e musicista. Dopo aver studiato scienze politiche a Parigi, ha vissuto a Berlino per venticinque anni. Attualmente risiede a Parigi. Ha scritto di banlieue, di giovani sradicati, di marginalità, temi con i quali si è imposto come una delle voci più importanti della letteratura africana in lingua francese. Un oceano, due mari, tre continenti è il suo sesto romanzo, il primo a materia storica. In un’intervista per Radio France Internationale racconta così la genesi del romanzo: «Tutto è iniziato con la scoperta di un libro di storia nella biblioteca di mio fratello maggiore, storico e specialista nei regni del Congo. Il libro raccontava la vita e le straordinarie avventure di quest’uomo. Ho subito capito che era un personaggio fondamentalmente romantico. Ci sono pochi africani del suo calibro i cui nomi sono stati conservati dalla storia. E’ un eroe fuori dal comune, che ha dovuto affrontare la schiavitù, l’Inquisizione, i pirati. Si è trovato in mezzo ai potenti del suo tempo: il sovrano dei Bakongo, ma anche il Papa, i re di Spagna e Francia. D’altra parte, ciò che rese interessante la sua testimonianza sulla schiavitù era che non era né uno schiavo né un proprietario di schiavi. La sua convinzione cattolica lo ha reso qualcuno che poteva vedere l’umanità nel suo insieme, da lontano.»
Non si parla molto di schiavitù nei romanzi africani. Non solo, possiamo dire che non si parli molto di schiavitù in generale. Un buon precedente è stato La stagione dell’ombra di Léonora Miano, che affronta la storia della tratta dal punto di vista di chi è rimasto. E’ un argomento spinoso che non fa onore a nessuno, che ci getta nell’angoscia di pensare che l’uomo è capace di fare il male puramente per profitto, senza troppa difficoltà. Come la Shoah, la storia della schiavitù ci mostra quanto è fragile la categoria di essere umano, quanto poco basti a sospenderla. Non serve nemmeno un credo politico, può bastare molto meno: cose più meschine e quotidiane come l’avidità.
E’ interessante studiare il fenomeno della tratta perché ci mostra chiaramente che il sistema di diseguaglianze su cui si fonda il nostro globale sistema socioeconomico non è un fenomeno naturale ma storico. L’idea che l’essere umano sia una merce, allo stesso modo in cui è una merce un piatto di porcellana, si struttura, in età moderna, in una vera e propria istituzione economica su cui si fonda un sistema di scambi. Questa idea accompagna lo sviluppo economico e il progresso tecnologico. Ma è un fatto storico, non necessario. È una delle infinite possibilità che la Storia ha prodotto e che gli uomini hanno scelto. La bella notizia è che la Storia produce anche rivoluzioni. Progresso e diseguaglianze non sono necessariamente collegate, è una conseguenza della forma storica che abbiamo scelto, questo non vuol dire che non ce ne siano altre. Il protagonista di quest’avventura ci suggerisce di guardare il mondo con occhi nuovi, restando saldamente fedeli alla nostra umanità. In quest’anno di grande fatica, che ci impone la necessità di percorrere nuove strade, Un oceano, due mari, tre continenti può essere una preziosa ispirazione. Un ottimo libro da regalare a Natale.