Ci ha lasciati un’icona del calcio azzurro e mondiale, capace di entrare nell’Olimpo degli immortali nonostante non fosse un fuoriclasse. Il suo istinto lo portava a fiutare la porta con un predatore fa con la propria preda. Il gol era la sua missione, il suo pane, era l’ossigeno necessario ai suoi polmoni, era quello che meglio sapeva fare. Il suo soprannome, Pablito, deriva in realtà dal Mondiale argentino, non da quello di Spagna, che è stato l’apice di una carriera troppo breve, ma che senza la fiducia del CT Bearzot – che lo convoca contro il parere di una intera nazione – sarebbe terminata ancor prima, se non nell’anonimato certamente nell’ignominia, a causa del suo coinvolgimento nel Totonero. È morto da tifoso juventino dopo aver vestito la maglia bianconera, seppur non nelle sue migliori stagioni. Ma si sa, al cuor non si comanda.
Il poster dei campioni del Mondo del 1982, preso dal Guerin Sportivo, l’ho avuto nella mia camera per molti anni. Gli undici titolari che scesero in campo nella partita contro la Germania li mando a memoria ancora oggi, come in una filastrocca. Avevo solo 6 anni e tutta la famiglia era riunita a casa di uno zio che ci ha lasciati troppo presto. Era l’unico tra di noi a possedere un televisore a colori e non poteva che essere il suo salotto il nostro avamposto azzurro privato. Tenevo in mano la bandiera tricolore, comprata da una bancarella a bordo strada. Ricordo il caldo di luglio, amplificato dal ritrovarci in tanti in nel piccolo salotto di una casa della periferia milanese, e la follia che si scatenò per strada al fischio finale. Ci mettemmo moltissimo tempo a tornare a casa. Ora che Pablito non c’è più, non so perché, ma mi sento derubato di quei ricordi, come se non fossero stati mai reali. Insieme a Gaetano Scirea, è passato dalla Nazionale azzurra a quella celeste. La sua bara portata a spalla dai suoi compagni e il commovente commiato di Cabrini sono stati l’ultimo omaggio all’uomo, al calciatore, ma anche un passaggio significativo per tutti noi, che per molti anni sul passaporto avevamo idealmente apposto la sua foto: Italia voleva dire Paolo Rossi e viceversa. Ciò valeva più di qualunque visto. È la fine di un’era, che da oggi tramanderemo come fosse una leggenda, non più come un tangibile e glorioso momento di sport nazionale.
Quando gli osservatori della Juve bussano a casa Rossi è il 1972 e Paolo ha appena 16 anni. In passato avevano portato a Torino il fratello Rossano, ma dopo una sola stagione lo avevano rispedito indietro. Dopo quell’esperienza negativa, papà Rossi non ha nessuna intenzione di dare il suo assenso al trasferimento di Paolo, ma, dopo molte insistenze, Italo Allodi riesce a convincere la famiglia. Resta in bianconero per 4 anni, senza mai debuttare in prima squadra, almeno non in campionato. La Juventus lo cede in comproprietà al Lanerossi Vicenza, dove resta 3 anni, ottenendo una promozione dalla Serie B alla Serie A il primo anno, sfiora lo scudetto l’anno seguente segnando la mostruosità di 24 gol in 30 partite, a cui vanno a sommarsi le 15 reti dell’anno seguente, che purtroppo non salveranno i biancorossi dalla retrocessione. Disputa inoltre un buon Campionato del Mondo in Argentina, dove l’Italia ottiene il quarto posto. Il suo pedigree è ormai notevole: è chiaro che non possa tornare in serie cadetta col Vicenza. A sorpresa però lo ingaggia il Perugia, che nella stagione 1978/79 va ad un passo della vittoria del campionato. Con Rossi gli umbri intendono fare il definitivo salto di qualità. Sarà invece l’inizio di un incubo.
Nel 1980 non è ancora consentito scommettere sul calcio, esiste solo il Totocalcio. La malavita, che gestisce una fitta rete di scommesse clandestine, ha interesse a truccare alcuni risultati. Entrano in contatto con diversi giocatori di Serie A, a cui intimano di non impegnarsi troppo in determinate partite, per favorire i loro loschi affari. L’immorale vicenda vede coinvolto anche Pablito. Stando a quanto sempre sostenuto dallo stesso, durante il ritiro che precede Avellino-Perugia, il suo compagno di squadra Della Martira lo presenta ad un paio di brutti ceffi. I quattro parlano informalmente della partita per pochi minuti, uno dei due sconosciuti ipotizza che un pari potrebbe stare bene a tutti. «All’Avellino – dice – un pareggio andrebbe bene, magari farai anche due gol». Paolo dice di non capire, ma forse capisce fin troppo bene l’antifona, così con una scusa saluta i presenti e li lascia al loro destino. La partita con l’Avellino termina 2-2 e l’attaccante del Perugia è il marcatore delle 2 reti ospiti. Se sia una drammatica coincidenza, o il frutto di quanto si sono detti i protagonisti di quell’incontro, non lo sapremo mai con certezza. Sta di fatto che quando tutto viene a galla, la giustizia sportiva non vuole sentire ragioni, infliggendogli due anni di squalifica. A soli 24 anni la sua carriera sembra terminata. Niente europeo casalingo del 1980 e niente Mondiali due anni più tardi. Forse.
Il primo anno di squalifica trascorre tra inattività e confusione. Pensa di andare a giocare negli Usa, oppure di diventare un imprenditore, nella realtà non fa nell’uno né l’altro. All’inizio della stagione 1981, dopo un timido abboccamento dell’Inter, Boniperti lo riporta alla Juventus. Il presidente dei bianconeri pretende però, giustamente, che si alleni ogni giorno, come se la domenica dovesse giocare. La squalifica termina in aprile, ormai a fine campionato. Rossi fa in tempo a giocare 3 partite, segnare un gol e fregia del primo successo della sua carriera: Campione d’Italia, anche se di fatto non mai giocato. Al Mondiale non ci pensa neanche per sbaglio: Pruzzo ha vinto la classifica dei cannonieri con 15 gol, in più ci sono Graziani e Altobelli e lui è reduce da 2 anni di stop. Ma il CT è ancora lo stesso che lo ha voluto con sé nella spedizione in Argentina di 4 anni prima, Enzo Bearzot. Nonostante la squalifica, il Vecio non ha cambiato idea: in Spagna, insieme a Graziani e Altobelli, porta proprio Rossi, contro il parere di tutti i tifosi e gli addetti ai lavori. E Pruzzo? Nemmeno convocato. Sembra una follia.
Rossi non becca palla per 4 partite, ma il CT non lo sostituisce mai. La stampa è feroce, l’Italia passa il primo turno per il rotto della cuffia, batte a sorpresa l’Argentina nel seconda fase, ma l’impegno successivo è contro il favoritissimo Brasile. Sui quotidiani sportivi e non, la richiesta agli azzurri è univoca: quella di non venire umiliati. Come succederà 12 anni dopo anche a Roberto Baggio a Usa 1994, proprio quando la situazione sembra disperata, Rossi ritrova sé stesso. L’azzurro segnerà 3 reti contro il Brasile, 2 contro la Polonia in semifinale e sbloccherà il risultato della finale contro la Germania Ovest. Sarà capocannoniere della manifestazione, verrà eletto miglior giocatore del Mondiale ed a fine anno vincerà il Pallone d’Oro.
Sarà l’apice di una carriera che si rivelerà breve, anche causa dei problemi alle ginocchia che lo tormentano fin dalla giovane età. Dopo i Mondiali chiede a Boniperti un ritocco dell’ingaggio, ma quest’ultimo non la prende affatto bene: gli rinfaccia di averlo ingaggiato quando era ancora sotto squalifica, trova la sue pretese prive di riconoscenza. I rapporti si fanno tesi. Rossi resta a Torino fino al termine della stagione 1984/85, in 3 anni mette a segno 23 gol in Serie A, vince un campionato e tutte e 3 le coppe europee, ma è raramente protagonista dei successi della sua squadra, perché nel frattempo è esplosa la coppia d’attacco Platini-Boniek. Chiude la carriera nel 1987, dopo una opaca stagione al Verona preceduta da un altrettanto deludente campionato nelle file del Milan. In mezzo la convocazione al mondiale di Messico 1986, dove però non gioca nemmeno un minuto. A soli 31 anni appende le scarpette al chiodo.
Spero che Pablito non si offenda se, nel porgerli il nostro saluto, anziché usare parole gravi e solenni preferiamo citare alcune delle curiosità che hanno caratterizzato il corso della sua carriera. Ad esempio: lo sapevate che il soprannome Pablito gli deriva dal mondiale del 1978 e non da quello del 1982, come tutti pensano? E che non fosse vincentino, ma bensì di Prato? Ancora: Il Perugia, fu la prima società di calcio in Italia a ricorrere alle sponsorizzazioni sulla maglia: era il Pastificio Ponte, che nel 1979 versò nelle casse degli umbri la bellezza di 400 milioni di lire. La decisione derivò dal bisogno di sostenere gli elevati costi del suo ingaggio. Rossi però aveva sottoscritto un accordo con la Polenghi Lombardo, anch’essa appartenente all’industria dell’agroalimentare. Così per evitare un conflitto di interessi, il marchio del pastificio non comparve mai sulla sola maglietta del bomber.
Infine, più che una curiosità una leggenda: all’interno della canzone Giulio Cesare di Antonello Venditti, il cantautore cita Paolo Rossi. A quanto pare non si riferiva al calciatore, ma ad uno studente universitario assassinato a Roma nel 1966 sulla scalinata della Facoltà di Lettere. Ad onor del vero, però, le versioni su questo particolare sono diverse e piuttosto discordanti. Qualunque sia la verità, non è in discussione il fatto che «Paolo Rossi era un ragazzo come noi».