Un uomo percorre in macchina le strade di Teheran. Sembra cercare qualcosa, o forse qualcuno. Si avvicinano delle persone per chiedergli se ha bisogno di un lavoratore. L’uomo li scruta ma sembra non essere interessato. Poi, andando verso le strade sterrate e sabbiose della periferia, comincia a parlare con chi lavora la terra. Chiede della loro vita, se hanno bisogno di soldi per un lavoro semplice. E noi, mentre osserviamo, siamo sempre con quell’uomo, Badii. Siamo dentro la sua macchina, e insieme a lui osserviamo lo scarto con il mondo fuori, al di là del finestrino.

I vetri compaiono spesso nel film, a separare Badii dagli altri e lo spettatore da Badii.

Ci sono film che raccontano storie attraverso parole, azioni, risoluzioni. Abbas Kiarostami lascia parlare i suoi personaggi e il loro moto ondivago; persino a lui, a volte, quei personaggi sono sconosciuti. Il sapore della ciliegia, vincitore della Palma D’oro nel 1997, è uno di quei film del regista iraniano che in più di un’occasione è stato accostato all’idea di Slow Cinema: un film che rallenta tempo e spazio, che ci proietta nella vita di un uomo a noi estraneo, di cui sappiamo una sola cosa: ha deciso di farla finita, e sta cercando un uomo che lo aiuti nell’intento.

Il sapore della ciliegia è ondivago come la macchina di Badii, che fa su e giù per le strade, le percorre e ripercorre, in cerca di qualcuno disposto, sotto un ingente pagamento, a sottostare a un impegno: dare venti badilate di sabbia e ricoprirlo se la mattina seguente lo avessero ritrovato morto in una fossa, tra la sabbia. Altrimenti, lo avrebbero aiutato a tirarsi su dal buco.

Così, l’unico moto e motore del film è quello dell’auto di Badii: è l’errare alla ricerca di una risposta interiore, forse qualcuno che gli dica per lui quale scelta fare. Soprattutto, il film si racconta attraverso il tempo e il suo colore: il colore dell’alba, del pomeriggio, del tramonto, della notte. I luoghi si colorano del tempo che progredisce, che avanza con Badii nella sua ricerca. È come se lo spazio intorno riuscisse a raccontarsi e a lasciarsi guardare proprio attraverso la coloritura del tempo. L’ocra della sabbia di giorno si fa via via sempre più caldo, e poi sfumato. Non è un caso che il film si componga di inquadrature ripetute, semplici, e allo stesso tempo distanti: i primi piani di Badii, chiuso nel suo abitacolo e i totali dall’alto che ci mostrano l’avanzare del tempo sulla terra.

Il film gioca molto anche sul contrasto del colore e il suo movimento/risalto sulla scena.

E la terra, la sabbia, il luogo dove ha scelto di morire Badii, è la proiezione di sé, della sua ombra. C’è un momento, in particolare, dove il tempo sembra dilatarsi ulteriormente, e Kiarostami decide di sostare più a lungo con la macchina da presa: è un piano sequenza silenzioso, che ci mostra le ruspe che scaraventano il pietrame nel tritatore. È la pietra che si fa sabbia, è la sabbia che ora scorre e fluisce davanti agli occhi di Badii. Badii osserva l’ombra della sabbia proiettata sulla terra, e scruta la sua ombra, come se fosse già lì, a diventare parte della materia.

La rarefazione dell’immagine ne Il sapore della ciliegia è anche la proiezione di questa materia friabile, diventata flusso. La sabbia fluisce e il colore vi si appoggia sopra, muta con l’avanzare del tempo. Tutto è proiettato fuori, tutto è proiettato dentro. Non sappiamo nulla di Badii, del motivo per cui è arrivato a meditare il suicidio, della sua vita, di come è arrivato lì. Sembra esserci uno scarto tra noi spettatori e lui, tra noi e le persone che tenta di convincere ad aiutarlo. E quando finalmente trova qualcuno disposto nel farlo – ma solo per pagare le cure di un figlio – ecco che trova anche qualcuno disposto a condividere un pezzo di sé. È un tassidermista che, come lui, tanto tempo prima, aveva deciso di farla finita; venne salvato dalle more di un albero, dal loro sapore. Fu salvato dalla loro vitalità, da quella del sorgere del sole, e ancora dei bambini che chiedevano aiuto per far cadere le more dall’albero. Così, il tassidermista che era uscito di casa per togliersi la vita, finì per tornare da sua moglie, carico di more.

D’improvviso sembra irrompere un colore nuovo, una nuova prospettiva che Badii quasi sembra rigettare. Le sue parole dicono una cosa, sembrano essere ancora convinte e decise nel compiere il gesto, ma le sue espressioni dicono altro. Così, il colore sembra mostrarsi in un altro modo: è il colore degli alberi, che si imitano ma superano il colore della terra; è il rosso fuoco del sole al tramonto, che colora il cielo. E poi, nel buio, sdraiato nella fossa, è il colore luminoso della luna, che si confonde dietro le nuvole. Il colore muta il tempo, fuori e dentro. E chissà, anche se non ci è dato saperlo, forse Badii cambierà idea.

Il colore entra sempre più in gioco nei suoi contrasti e nella sua vitalità, come se seguisse il “colore interiore” di Badii.

Kiarostami attraverso la lentezza proietta il colore dell’interiorità al di fuori, per poi mostrare a Badii, tornando dentro, il colore dell’esteriorità: il tempo muta il colore e forse Il sapore della ciliegia è proprio lì per mostrarcelo. E se l’essere al di là di un vetro, il non riuscire a comunicare, è il problema di Badii, quando lo schermo viene varcato può esserci lo spazio e il tempo per guardare davvero le cose. È come se Kiarostami, ponendoci di fronte ai suoi film, ci dicesse: siete davanti a uno schermo, ma è come se lo aveste già varcato.