Era il 1957 e la giovane nazionale dell’Irlanda del Nord cercava la sua prima qualificazione al Mondiale dell’anno successivo, in un girone che comprendeva Portogallo e Italia. Il 4 dicembre, a Windsor Park, la Nazionale di Alfredo Foni fu accolta dal clima rovente di Belfast, dove il pubblico aveva appreso all’ultimo minuto della trasformazione della gara in amichevole a causa dell’assenza dell’arbitro, bloccato a Londra per via della nebbia. Da questo episodio scaturirono due gare tragiche per gli Azzurri: la prima per le botte ricevute in campo e a partita finita, dopo l’invasione dei tifosi adirati, con un pareggio che però non fu valido per la classifica; la seconda per la sconfitta che condannò l’Italia a un’amara esclusione dal Mondiale di Svezia 1958.

Svizzera, Irlanda del Nord, Bulgaria e Lituania. Nel percorso disegnato dall’urna di Zurigo che ha come destinazione uno dei gironi di Qatar 2022, le prime due tappe (perlomeno in ordine di difficoltà) riallacciano l’Italia a ricordi sgradevoli e disfatte storiche, un cupo promemoria che servirà agli Azzurri di Mancini per coltivare le rinnovate (e legittime) ambizioni senza mai dare nulla per scontato, a maggior ragione a soli tre anni dallo 0-0 di Milano contro la Svezia, il «che cazzo entro io?» di De Rossi, le facce di Ventura.

Se agli elvetici è inevitabilmente legato il fallimento italiano al Mondiale 1954, che celebrava i primi cinque decenni di vita della FIFA, è molto più intricato e ricco di personaggi, aneddoti e colpi di scena il precedente – ma sarebbe appropriato anche il plurale – che unisce Italia e Irlanda del Nord.

Seppur andato incontro ad un’importante (ma unica) opera di rimodernamento, richiesta a gran voce per questioni di sicurezza e portata avanti non senza complicazioni burocratiche, lo stadio di Belfast che nel novembre 2021 accoglierà l’Italia sarà sempre Windsor Park. La demolizione del West Stand, sostituito dopo le crepe avvistate a marzo 2015 durante una sfida contro la Finlandia valida per le qualificazioni a Euro 2016, e un look rinfrescato più in generale, non riusciranno in ogni caso a rendere meno ruvido e ostico l’aspetto della casa dell’Irlanda del Nord e del Linfield FC, perfettamente inserito nel contesto di una città da minimo 15 giorni di pioggia in ogni mese dell’anno.

In altre parole non sarà certo difficile per Donnarumma, Barella o Belotti dare uno sguardo alle tribune, chiudere gli occhi sotto un probabile scroscio e sentire i piedi affondare nel pantano che fece da tappeto rosso alla prima visita azzurra a Belfast.

Windsor Park nei primi Anni 2000, prima dei lavori di rimodernamento. – ©WikimediaCommons

Nel dicembre 1957 l’Irlanda del Nord esisteva ormai da oltre 30 anni ma, in qualche modo, stava ancora abituandosi alla propria vita da nazione indipendente, divisa dall’Irish Free State. Nel calcio la partizione era ancor più evidente e caotica, con la maldestra convivenza a partire dal 1921 di due federazioni, la già esistente Irish Football Association (IFA) con base a Belfast e la neonata Football Association of the Irish Free State (FAI), di casa a Dublino. Almeno inizialmente, l’IFA si guardò bene dall’accettare compromessi, continuando a convocare calciatori provenienti da territori sia a nord che a sud dei confini recentemente disegnati. Gli elementi in grado di rompere questo precario equilibrio furono l’affiliazione alla FIFA di entrambe le federazioni (la FAI nel 1923, l’IFA solo nel 1946 alla fine di un boicottaggio di 18 anni) e la fine nel 1937 dell’Irish Free State, che prese il nome di Irlanda.

Il rischio di vedere due nazionali omonime qualificate al primo Mondiale post-bellico, nel 1950, fu a questo punto concreto: un imbarazzo di difficile gestione per la FIFA, che vide alcuni calciatori irlandesi rappresentare entrambe le squadre durante le qualificazioni. L’atto che sancì il passaggio dell’Irlanda a repubblica, però, fornì un importante assist – “Republic of Ireland” era infatti un nome legalmente accettabile per una selezione calcistica, soprattutto distinguibile dalla controparte settentrionale.

Ben altre erano invece le preoccupazioni dell’Italia allenata da Alfredo Foni, in un Paese nel quale la pedata era ormai ampiamente affermata, tanto da caricarsi sulle spalle buona parte delle responsabilità di risollevare il morale nazionale, arrivando a rappresentare lo stucco necessario a riempire le crepe aperte dal secondo e ultimo conflitto mondiale. Dopo i due Scudetti vinti alla guida dell’Inter nel 1953 e 1954, Foni fu chiamato per fare dimenticare in fretta il tracollo azzurro alla Coppa del mondo Jules Rimet 1954, chiusasi amaramente con la sconfitta per 4-1 incassata a Basilea dai padroni di casa svizzeri. Al netto delle polemiche arbitrali, la figuraccia rimediata fu tale che il presidente della FIGC Ottorino Barassi decise di affidare la rinascita non ad una, ma a cinque teste, formando una Commissione, tanto originale quanto italiana, nella quale a Foni, che poi sarà effettivamente nominato CT nel 1957, spettava la responsabilità tecnica della squadra.

Le idee che avevano permesso all’allenatore di trionfare a Milano, però, faticarono a far presa su un popolo che da lì a pochi anni Bernardini avrebbe definito “di commissari tecnici”. Foni veniva considerato un esponente del catenaccio ma, all’alba del dibattito tra giochisti e risultatisti, l’Italia era schierata ancora a favore del WM o sistema, del quale si guardava con sospetto ogni cenno di innovazione. Da qui nacque un percorso fatto di sperimentazioni ed inevitabili marce indietro dettate dalla critica, un’altalena rispecchiata anche dai risultati della Nazionale, che si poté però consolare con il gruppo che metteva in palio l’accesso a Svezia 1958: del Portogallo, fino a quel momento escluso da ogni Mondiale, si contavano più le umiliazioni ricevute in giro per l’Europa che le vittorie; l’Irlanda del Nord, dopo due tentativi di qualificazione falliti, ci riprovava per la prima volta in un girone privo di squadre britanniche, con una rosa messa in piedi più per questioni di appartenenza che meriti calcistici, impreziosita dal solo Danny Blanchflower, che qualche anno dopo avrebbe guidato il Tottenham al double campionato-coppa.

I calcoli fatti sulla carta si rivelarono ben presto frettolosi e superficiali, fin dall’1-0 risicato che valse i primi due punti ottenuti a Roma contro i britannici. A seguire, il 3-0 rifilato agli azzurri dal Portogallo fece capire in maniera lampante lo stato di confusione in cui versava il calcio italiano. In anticipo di quattro anni sulla vittoria della Germania Ovest, la prima Coppa del Mondo dopo la guerra aveva funto da vetrina per due nazionali sudamericane, incrociatesi in quello passato alla storia come Maracanaço – a scrivere gli atti più sorprendenti della tragedia del secolo furono gli uruguaiani Juan Alberto Schiaffino e Alcides Ghiggia, per i quali, dopo i rispettivi approdi a Milan e Roma, ci si adoperò per fare saltar fuori qualche parente italiano. E non saranno gli unici due casi: quella di Foni, infatti, è anche la Nazionale degli oriundi, meglio ancora se provenienti dall’unico Paese insieme all’Italia che, su cinque edizioni in totale, il Mondiale lo ha già portato a casa due volte.

Sono il 4 e il 22 dicembre 1957 le date cerchiate in rosso nel calendario dell’Italia di Foni – tra Belfast e San Siro servono una vittoria e un pareggio per qualificarsi, ed è con questo pensiero in testa (forse) che gli Azzurri passeggiano allegramente per le vie della città nordirlandese alla vigilia della sfida, naturalmente sentitissima per i padroni di casa, come dimostrato dalla velocità con cui si riempiono, il giorno dopo, spalti e persino tetti di Windsor Park.

Un’immagine di Windsor Park, con diverse persone accampate sul tetto che sovrasta una delle tribune. – © British Pathé – Youtube

L’arrivo della folla, però, è accompagnato dall’annuncio che nessuno dei 50 mila spettatori avrebbe voluto ascoltare: l’arbitro ungherese designato per l’incontro, Istvan Zsolt, è rimasto bloccato all’aeroporto di Londra per via della nebbia; dopo l’allettante proposta di fare arbitrare la gara a un local referee, tale Tommy Mitchell, l’Italia conviene che l’unica soluzione percorribile è quella di trasformare il match in un’amichevole. Gli altoparlanti di Windsor Park, però, la raccontano a modo proprio, accusando gli italiani di non aver aperto ad altre possibilità. È quanto basta per trasformare il terreno di gioco, già abbondantemente fangoso, nell’arena della “Battaglia di Belfast“, preannunciata dai gesti minacciosi dei tifosi nordirlandesi rivolti alle macchine da presa, come mostrato da un affascinante servizio sulla partita conservato nell’archivio di British Pathé.

I fischi che travolgono l’inno nazionale italiano sono una degna anticipazione di quanto avverrà in campo, dove nel clima di assurda tensione creato dai sostenitori di casa le due squadre daranno vita a un confronto fatto da colpi proibiti a palla lontana e cariche irregolari subite dal portiere azzurro Ottavio Bugatti. Nel calderone ci finiscono anche due gol per parte – il primo italiano, del momentaneo vantaggio, è segnato in contropiede da Ghiggia.

Un primo tocco rapido per beffare il difensore in scivolata, un secondo, lesto e con il mancino, per fare passare la palla sotto il corpo del portiere che si getta sui suoi piedi. Ancora una volta, avrebbe potuto essere la mazzata morale in grado di ammutolire uno stadio intero, di far cambiare direzione a una partita e alla Storia, proprio come gli era già accaduto sette anni prima al Maracanã. Si tratterà invece dell’unica rete di Ghiggia con la maglia dell’Italia, utile a nulla se non a infiammare ulteriormente gli animi nordirlandesi, dentro e fuori dal campo.

Il 2-2 finale, che avrebbe potuto dare alla squadra di Foni punti preziosi in ottica qualificazione, fu solo il preludio al capitolo più triste di quella giornata, scoccato con il fischio finale e l’invasione dei tifosi, trasformatasi nel giro di pochi secondi in una caccia all’uomo, italiano naturalmente. A farne le spese fu, in particolare, il difensore juventino Rino Ferrario, il cui volto tumefatto e dolorante fu ritratto in varie immagini pubblicate dai quotidiani sportivi.

Il 15 gennaio 1958, poco più di un mese dopo, con un 3-0 al Portogallo in tasca in più, l’Italia si ripresentò a Belfast, questa volta insieme all’arbitro Zsolt. Bastava un pari, ma pari non fu – nel momento più importante crollò miseramente un castello di sabbia messo in piedi negli anni precedenti, le cui basi poggiavano evidentemente sul terrore di un nuovo fallimento piuttosto che su una reale ambizione di rinascita. Perfetto emblema della giornata fu l’espulsione dello stesso Ghiggia, che avrebbe poi collezionato la sua quinta e ultima presenza con gli Azzurri circa un anno dopo, in amichevole.

Puntuale come sempre, Vittorio Pozzo concentrò le ragioni dietro “la disfatta di Belfast” in poche parole pubblicate su La Stampa, parte di un articolo intitolato “Perché abbiamo fallito la prova“:

Vecchi e nuovi problemi del football italiano – Una squadra formata in modo irrazionale che non ha tenuto al ritmo degli avversari in una partita normale, corretta e piacevole per tutti (meno che per noi)

Vittorio Pozzo